mercoledì 27 novembre 2013

ALESSANDRO MANZONI E PIERO CHIARA, ovvero I PROMESSII SPOSII – 5 – LA CHIARIFICAZIONE





PIERINO ANGELO CARMELO CHIARA

(Luino, 23 marzo 1913 – Varese, 31 dicembre 1986)

in arte

PIERO CHIARA


Si firmava Piero Chiara, ma all’anagrafe il suo vero nome era Pierino; e un vero Pierino fu: bocciato due volte (in terza elementare e in seconda ginnasio), abbandonò e riprese due volte gli studi, per conseguire, da privatista, il diploma di “licenza complementare” nel 1929 ed entrare nell’amministrazione della giustizia nel 1932, come “aiutante di cancelleria” soprannumerario, essendosi piazzato 118° nella graduatoria di 119 posti disponibili (fra i personaggi illustri, solo Totò riuscì a far di meglio – pardon, di peggio – in Destinazione Piovarolo: 850° su 850). 
Perché Piero Chiara amava la vita, non la scuola; amava le esperienze e le avventure, non gli studi: 
– le esperienze vissute personalmente: i soggiorni a Resuttano (Caltanissetta), il paese del padre; poi i quasi due anni di viaggi, in Italia e in Francia, dopo il diploma; infine, nel 1938, il progetto di partire per la Bolivia, abbandonato per via della guerra; 
– le storie degli altri, ascoltate al caffè, dove passava i pomeriggi e le serate, e in tribunale, dove incontrava la più varia umanità; 
– le storie immaginarie, che scopriva prima nei romanzi di avventura per ragazzi (Salgari, Verne) e poi nella grande narrativa italiana e straniera (da Manzoni a Zuccoli, da Fogazzaro a Pirandello, da London a Stevenson, da Melville a Dostoevskij). 
Chiara sviluppa le sue qualità di affabulatore, acquisendo presso gli amici la fama di straordinario narratore orale. E sarà, pare, proprio per le insistenze degli amici che Chiara – che si era prefigurato una carriera letteraria da poeta – diventerà romanziere, pubblicando nel 1962 Il piatto piange. Il successo enorme e la scrittura apparentemente facile, ma in realtà accuratissima, fanno storcere il naso ad alcuni critici: Ho in circolazione quasi tre milioni di copie dei miei libri. Il che vuol dire che sono letto più dagli uomini comuni, che sono gli uomini migliori, che dagli intellettuali, che sono i peggiori. (P. Ch.) È una rivincita del Pierino che andava male a scuola, nei confronti degli “intellettuali” (quelli fra virgolette, naturalmente, non certo quelli autentici, che lo apprezzavano). 
È un narratore tradizionale: Boccaccio, Manzoni, Wilder, Tolstoj, Melville, perfino la Invernizio e un ignoto qualsiasi, preceduti e seguiti da chissà quanti altri, incominciano i loro romanzi con l’indicazione del luogo e del tempo in cui si svolgerà l’azione. Ed è una garanzia, offerta all’inizio, d’aver dei ‘fatti da raccontare’, come al vero narratore s’appartiene, e non delle introspezioni buone solo per l’autore, o peggio ancora delle acrobazie linguistiche, buone per quei lettori che temono, non orecchiandole, di passare per degli incolti. (P. Ch.) 
Avido di esperienze, curioso degli altri, insofferente delle costrizioni: Piero Chiara era un libertino, nel senso originario del termine – cioè libero pensatore – e in quello corrente – cioè assiduo frequentatore di donne –. Un libertinaggio vissuto personalmente: conduce, sono parole sue, una gran bella vita da scapolo (fu sposato, ma il matrimonio durò pochissimo); ma anche un libertinaggio vissuto per interposta persona: scrive la Vita di Gabriele D’Annunzio e, soprattutto, cura la prima edizione integrale dell’autobiografia di Giacomo Casanova. 
Chiara era un frequentatore di caffè e di tribunali, abbiamo detto: i luoghi ideali, grazie alle chiacchiere e alle denunce, per smascherare i segreti inconfessabili che si nascondevano dietro la facciata di irreprensibilità borghese dei suoi compaesani. 
L’incontro/scontro con i Promessi sposi – ambientati oltretutto a pochi chilometri da casa sua – era inevitabile: lo stridore fra il perbenismo ipocrita della realtà umana che lui conosceva bene e l’idealizzazione manzoniana non poteva sfuggire al suo sguardo scettico e ironico. E la tentazione di guardare la storia di Renzo e Lucia attraverso il buco della serratura, svelando gli inconfessabili retroscena e le miserie dei protagonisti – come aveva fatto chissà quante volte con gli amici al caffè, raccontando e ascoltando le vicende piccanti dei compaesani – era irresistibile. Un’operazione di “chiarificazione”, in tutti i sensi. Proprio quella che il Manzoni, frenato dal suo pudico cattolicesimo, non aveva saputo o potuto fare. Così scrive di lui e della sua opera Piero Chiara: Credo [...] di essermi introdotto con sufficiente aderenza nella sua pelle, cioè nel suo essere fisico e nella sua struttura psichica, che è, come dire, per estensione, nella sua anima. O, almeno, in una delle sue due anime, quella peggiore, se vogliamo, ma indubbiamente la più sua, la più naturale. Quell’altra, che si era formata con una arrampicata intellettuale e filosofica dapprima e con una scivolata religiosa poi, quella che volle, fortissimamente, esprimersi in lingua e allinearsi a un certo modello di comportamento, l’ho guardata controluce. Ho invece maneggiato quell’altra, quella che avrebbe voluto esprimersi in dialetto milanese, quella che era carica di tutte le tare, dei veleni che gli serpeggiavano nel sangue e della tristezza che aveva nel cuore. La quale, per me, è l’anima migliore, l’anima vera, anche se lo aveva riempito di pessimismo e di scetticismo

Ma passiamo all’opera. La carissima amica, tanto brava quanto schiva, che mi aveva preparato il riassunto dei Promessi Sposi di Guido Da Verona, ha acconsentito, dopo mesi di blandizie e di minacce, a fare altrettanto per quelli Piero Chiara, esigendo, come allora, di mantenere segreto il suo nome. 

Piero Chiara 
I PROMESSI SPOSI: la trama 
a cura della bella Innominata

Parte Prima 


Novembre 1628. Un prete di mezza età cammina, leggendo il breviario, su una strada di campagna, nelle vicinanze di Lecco e del lago di Como. 
A un bivio incontra due “bravi”, sgherri di Don Rodrigo, il signorotto locale. Il prete, che si chiama Don Abbondio, sa che da tipi simili possono venire solo guai, ma non ha possibilità di fuga. Il padrone li ha incaricati di vietare a Don Abbondio la celebrazione del matrimonio, previsto per l’indomani, tra due paesani, Renzo Brambilla e Lucia Castagna: si è incapricciato della ragazza, e non vuole ostacoli in quest’avventura. 
Dopo il colloquio coi due, il prete corre terrorizzato a casa, dove lo attende Perpetua, governante, cuoca, amante, e in questa occasione anche consigliera; destinata, tuttavia, a rimanere inascoltata, perché la vigliaccheria del padrone lo rende supinamente acquiescente ai desideri dei più potenti. 
Il mattino dopo Renzo si presenta presto in canonica a prendere accordi sulla cerimonia. Il curato gli fa capire in modo inequivocabile i rischi di questo matrimonio, e gli propone altre possibili candidate, ma il giovane è irremovibile, e minaccioso quasi quanto i “bravi”.Lasciato Don Abbondio, Renzo si precipita a casa di Lucia, che vive con la madre e si sta abbigliando per le nozze senza troppo entusiasmo. Furioso, chiede conto alla ragazza dei suoi rapporti con Don Rodrigo, e riceve in risposta una versione molto edulcorata degli eventi. Lucia gli fa credere di essere vittima innocente quanto riottosa delle attenzioni del nobiluomo, mentre in realtà le cose sono andate ben oltre un semplice corteggiamento, e con reciproca soddisfazione. Lei e la madre Agnese raccontano anche di aver chiesto la protezione di Padre Cristoforo, uomo attraente oltre che autorevole, anche lui estimatore ricambiato delle qualità della fanciulla e prontissimo ad assicurarle di essere capace e disposto a tener testa al signorotto per farla sposare senza pericoli con Renzo (un marito è ingombrante, ma può rivelarsi anche un utile schermo per le amicizie con ecclesiastici). 
Al momento, comunque, ad Agnese sembra più opportuno togliersi di torno l’aspirante genero, mandandolo, con quattro capponi in omaggio, da un avvocato di Lecco, tale Gilardoni. Costui, una volta compreso che il cliente non è un “bravo” in cerca di una scappatoia legale a qualche malefatta, ma l’ingenuo operaio che appare, lo esorta caldamente a sposare Lucia, dandole però piena libertà di frequentare Don Rodrigo, con prevedibili vantaggi per tutte le parti in causa. Dinanzi alla violenta reazione di Renzo, lo caccia di casa coi capponi e tutto, per non rischiare che a Don Rodrigo giunga voce di una sua ipotetica alleanza col rivale. Per strada, il giovane chiede a un passante se ci siano in città altri avvocati, e l’interpellato risponde fornendogli nome, soprannome (Rusconi detto Rugamerda) e indirizzo di un legale noto come patrocinante dei poveri. Il nuovo avvocato gli suggerisce l’inghippo del “matrimonio a sorpresa”, per cui lo sposalizio risulterebbe valido solo pronunciando le formule di rito alla presenza di un sacerdote, anche senza nessun intervento da parte di quest’ultimo. 
Esultante per il consiglio ricevuto, Renzo torna al paese a riferire ogni cosa a Lucia e Agnese. Il matrimonio a sorpresa viene progettato per l’indomani notte, con l’appoggio di Padre Cristoforo che promette intanto di recarsi al castello di Don Rodrigo per dire il fatto suo al prepotente. Il frate giunge nel bel mezzo di un allegro banchetto, al quale è costretto ad unirsi. Alla fine, rimasto solo col padrone di casa, Padre Cristoforo gli chiede inutilmente di lasciar stare Lucia. I due si separano minacciandosi l’un l’altro, ma il frate viene raggiunto da un servo di casa, che si offre di aiutarlo spiando il padrone. 
Nelle ore successive, mentre i fidanzati con Agnese e due compaesani in funzione di testimoni si recano a casa di Don Abbondio per realizzare il loro piano, Don Rodrigo ordina ai suoi bravi più fidati di rapire Lucia e portarla da lui. Entrambe le imprese falliscono. I sicari del signorotto trovano vuota la casa delle due donne e Don Abbondio, grazie a una non casuale esitazione di Lucia nel pronunciare le parole che le spettano, riesce a fuggire evitando il compimento del rito nuziale. 
A questo punto interviene Padre Cristoforo con un’altra proposta di soluzione: Agnese e la madre troveranno rifugio a Monza, in un convento di monache di cui lui conosce bene la più influente; nel frattempo Renzo dovrà raggiungere Milano, dove grazie alla raccomandazione del frate troverà lavoro e si terrà nascosto finché le cose in paese siano in qualche modo sistemate. 
Giunte al convento, le donne conoscono la monaca amica di Padre Cristoforo, chiamata da tutti la Signora. Si tratta di una nobildonna, costretta dal padre a prendere il velo nonostante la sua ripugnanza, che ha acquisito autorità nel convento e dintorni benché sul suo passato circolino voci inquietanti. La Signora sembra prendere in grande simpatia Lucia, e la sistema in una camera vicina alla sua, mentre la madre rimarrà nella foresteria. 
Più movimentate risultano le vicende di Renzo, che arriva a Milano nel mezzo di una rivolta popolare. La carestia che grava su tutta la regione ha provocato un forte aumento del prezzo del pane, e i cittadini lo imputano ai fornai disonesti e alle corrotte autorità spagnole; perciò assaltano in massa i forni e poi si dirigono, infiammati dalle proprie stesse grida, all’abitazione del Vicario del re di Spagna. Renzo, trascinato dalla folla, viene scambiato per uno dei capi della rivolta e tradito da una prostituta, che lo trattiene col miraggio di piaceri straordinari, mentre un’altra donna va a denunciarlo e conduce fino a lui gli sbirri. Arrestato e ammanettato, nel tumulto che ancora pervade le strade riesce comunque a fuggire e a uscire dalla città. 
Una volta libero, il giovane cerca e trova un modo per attraversare l’Adda lasciando il territorio di Milano, e si propone di chiedere aiuto a un parente che vive a Bergamo.

Parte Seconda 


Nel convento di Monza, Lucia viene a conoscenza dell’arresto del fidanzato. Ma i giorni tranquilli stanno per finire anche per lei. Il conte Osio, un amante della Signora, ha ricevuto da un altro nobiluomo la richiesta di fargli avere Lucia. Ne viene così concertato il rapimento, con la complicità della monaca. Costei fa uscire con un pretesto la ragazza dal convento. Lì fuori la attende una carrozza; un uomo la afferra e la fa salire con la forza, dopo di che la vettura si dirige al castello di Bernardino Visconti, un losco e potente figuro, mandante diretto del rapimento su preghiera dell’amico Don Rodrigo. Non troppo spaventata, Lucia si offre con insistenza al padrone di casa, le cui prestazioni si rivelano però fallimentari a causa dell’età avanzata. Nonostante la mortificazione, egli decide di trarre comunque vantaggio dalla situazione. Proprio quel giorno nelle vicinanze si trova il Cardinale di Milano Federico Borromeo, in visita pastorale. Il Visconti gli chiede udienza, confessa i propri delitti dichiarandosene pentito e, assolto con l’entusiastica benedizione del Cardinale, per soprammercato gli consegna Lucia, perché la ragazza possa finalmente ricongiungersi al promesso sposo; ricongiungimento del quale in realtà lei è ben poco desiderosa, dopo aver conosciuto uomini tanto più importanti e interessanti. 
Lucia trova ora ospitalità a Milano, in casa di Don Ferrante, studioso assai poco lungimirante, e della moglie Donna Prassede, infaticabile pettegola e intrigante. 

È passato un anno. Alla guerra e alla carestia si è aggiunta un’epidemia di peste che ha decimato Milano e dintorni. Vi muoiono in tanti: Donna Prassede, Padre Cristoforo, e Don Rodrigo. Renzo parte da Bergamo per cercare Lucia, che trova a Milano, sana e salva, e con in braccio un bel bambino. È – così almeno dichiara la giovane madre – figlio di Don Ferrante, che, rimasto vedovo, aveva chiesto in moglie Lucia; lei, convinta che di Renzo non avrebbe avuto più notizie e desiderosa di una buona sistemazione, aveva accettato. In conclusione, Renzo viene assunto come cocchiere dalla coppia. L’anziano Don Ferrante può far sfoggio di una moglie giovane e bella e il cocchiere, forse, ne godrà privatamente l’intimità.

Toccherebbe ora analizzare l’opera, ma direi che per oggi è meglio fermarci qui. Ne parleremo la prossima volta.  
A presto, miei diletti.

La seconda parte di questo post si trova qui (clic).

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