giovedì 24 maggio 2012

GIUSEPPE GIOACHINO BELLI ovvero SCUSATE SE INSISTO



1182. Papa Sisto

     Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Ddio, nun z’è mmai visto
un papa rugantino, un papa tosto,
un papa matto, uguale a Ppapa Sisto.

     E nun zolo è dda dí cche ddassi er pisto
a cchiunqu’omo che jj’annava accosto,
ma nun la perdonò nneppur’a Ccristo,
e nnemmanco lo roppe d’anniscosto.
  
     Aringrazziam’Iddio c’adesso er guasto
nun pò ssuccede ppiù cche vvienghi un fusto
d’arimette la Cchiesa in quel’incrasto.
  
     Perché nun ce pò èsse tanto presto
un antro papa che jje pijji er gusto
de méttese pe nnome Sisto Sesto.

9 aprile 1834

Fra tutti quelli che hanno avuto il posto di vicario di Dio, non si è mai visto un papa arrogante e collerico, un papa tosto, un papa matto, come Papa Sisto V. E non c’è solo da dire che dava quel che si meritava a ognuno di quelli che gli andavano appresso, ma non la perdonò nemmeno a Gesù Cristo, e non lo ruppe nemmeno di nascosto. Ringraziamo Dio che adesso non può più succedere che venga un tipo in grado di rimettere la Chiesa in quella situazione. Perché non ci può essere tanto presto un altro papa che si pigli il gusto di mettersi per nome Sisto Sesto.

[L’accenno a Gesù Cristo si riferisce a un aneddoto leggendario, secondo il quale Sisto V avrebbe spaccato in due un crocifisso che sanguinava, svelando il trucco: una spugna intrisa di sangue animale, che veniva strizzata tirando una corda.]



GIUSEPPE FRANCESCO ANTONIO MARIA GIOACHINO RAIMONDO (e chi più ne ha più ne metta) BELLI, o, per gli amici,

GIUSEPPE GIOACHINO BELLI

(Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863)



Un mio amico – veneto come me – tanti anni fa faceva il servizio militare, come ufficiale, a Roma. Un giorno stava abbordando una ragazza, su un ponte: passa un tizio qualsiasi e, senza tanti complimenti, si rivolge alla ragazza: “Nun je ddar rretta!”
In Veneto un episodio del genere sarebbe impensabile; ma i romani sono così: battuta pronta e lingua tagliente, e nessun esitazione a impicciarsi dei fatti degli altri.
Fu Giuseppe Gioachino Belli lo scrittore che meglio seppe interpretare questo carattere del popolo romano. La sua produzione in romanesco è quantitativamente inferiore a quella in italiano; ma, non a caso, è la più nota e apprezzata. Inferiore sì, ma non esigua: 2272 sonetti!
Il suo obiettivo? Ritrarre l’indole della Roma popolana:
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. (G.B.)
Una plebe che si esprime con spontaneità e vigore, perché non è intervenuta la cultura a temperarli:
I nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie. (G.B.)
Una spontaneità e un vigore che la cultura di un letterato rischierebbe di distruggere:
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio. (G.B.)
E perciò il poeta non si deve fermare neanche davanti al volgare e al blasfemo:
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento. (G.B.)
Il Belli ribadisce ancora il carattere popolare, non municipale, della sua lingua; una lingua che non è di tutta la città, ma delle sue classi più basse:
Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. (G.B.)
La simpatia del Belli per il mondo popolare deriva certamente dai principi della poetica romantica, ma gli permette anche di denunciare, senza peli sulla lingua,  le ipocrisie e gli egoismi delle classi alte, a cui egli apparteneva.
Nel poema romanesco sono sfiorati tutti i motivi e le tonalità, dalla elementare comicità schietta e spontanea, dalla satira carica di fiele, dall’invettiva amara contro persone e istituzioni, alla risata sfrenata, al sarcasmo cupo, al dramma e alla elegia, infine alla rappresentazione trepida e insolitamente raccolta. (Giovanni Orioli)
Belli non ama giocare con le parole; la sua è una comicità concreta, in lui il riso nasce dalle cose, dalle situazioni. Ma c’è un’eccezione: il sonetto dedicato a Sisto V, in cui la battuta finale si fonda sulla buffa cacofonia del nome del futuro, ipotetico, Sisto VI. Una cacofonia che Belli prepara e orchestra sapientemente:
- dispone una sfilza di rime omoteleutiche (= simili, e quindi tutte assonanti fra di loro),
- che differiscono solo per la vocale tonica
- e dove sono presenti tutte le cinque vocali: -osto, -isto, -asto, - usto, - esto;
poi, come alla conclusione di uno spettacolo di fuochi d’artificio,
- nel finale intensifica il ritmo e spara di seguito le due ultime, inaspettate, assonanze.
È la ripresa – non saprei dire se consapevole o meno – degli schemi metrici di Ludovico Leporeo (1582 – 1655 circa). Una ripresa in forma semplificata e meno rigorosa:
       - le rime non sono in ordine alfabetico;
- anziché rime interne regolari abbiamo un’unica, inaspettata e proprio per questo efficace, assonanza interna finale.

Resta da chiedersi se esista qualche altro nome impossibile per un papa. Vito La Colla scrive alla rubrica Scioglilingua di Giorgio Di Rienzo, sul Corriere della Sera, l’8 aprile 2005: Un altro nome pontificale che si può, forse, considerare come esaurito nella storia dei papi è Urbano. Perché toccherebbe ora al IX, Urbano nono sarebbe pure un tantino cacofonico.
Ma non è detta l’ultima parola: scopro or ora che è esistito uno scultore che si chiamava Urbano Nono (Venezia, 1849 – Longarone, Belluno, 1925); il fratello, pittore, si chiamava Luigi Nono (Fusina, Venezia, 1850 – Venezia, 1918), come il santo re francese: i genitori devono essere stati dei buontemponi! Se avessero avuto nove figli, non ho dubbi sul nome che avrebbero dato all’ultimo...
Provo allora io a dedicare una filastrocca a Urbano VIII Barberini. Ricordo la celebre pasquinata con cui venne criticato per aver fatto asportare le strutture in bronzo del pronao del Pantheon, per fare il baldacchino di San Pietro e cannoni per Castel Sant’Angelo: Quod non fecerunt barbari, Barbarini fecerunt (= Ciò che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini). Chi ne fu l’autore? La notizia è recentissima (Corriere della Sera, 25 aprile 2012): è Urbano VIII stesso a scrivere nel suo diaro che fu il sacerdote Carlo Castelli, all’epoca canonico di Santa Maria in Cosmedin e ambasciatore del Duca di Mantova presso la Santa Sede, che glielo confessò in punto di morte.


PAPA URBANO

Quel che i barbari non fecero
fece un Barberini becero:
papa Urbano VIII, str...,1
privò il Pantheon del bronzo.
Per fortuna non avrò
un Urbano IX, no!

1 – Lacuna nel documento: strano?


LETTURE CONSIGLIATE

http://www.liberliber.it/libri/b/belli/index.htm 
Tutti i sonetti digitalizzati.

SITI INTERNET

http://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-belli_res-964bfe2a-87e7-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Dizionario-Biografico%29/ 
Voce su Giuseppe Gioachino Belli, a cura di  Giovanni Orioli, del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani editore.


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mercoledì 9 maggio 2012

LUDOVICO LEPOREO ovvero VO A CACCIA E IN TRACCIA DI PAROLE


A gente studiosa, intendente, curiosa

O Signori verseggiatori, Academici Armonici, Aristodemici, Platonici, Mistici, Scolastici, Umoristici, Fantastici, avidi di poemetti, gravidi di concetti, tronfi di boria, gonfi di vanagloria che sapete essere, e potete tessere studiosa melodia in prosa ed in poesia, leggete, che sentirete nell’idioma di Roma volgare, che non ha pare, cotesto strambo contesto centone poetico in cartone leporeambo alfabetico, che spera dilettarvi con mostrarvi novella e bella maniera; e però ho ritrovata e publicata una norma poetica di forma bisbetica, e con licenza dell’eccellenza d’Apollo ho fatto un rollo ed una vasta catasta di rimucciole sdrucciole e componimenti scivoli, correnti al paragone del Teverone di Tivoli, alla barba de Iarba e di quanti coribanti cantorno nel contorno di Arno, d’Ebro, di Sarno e di Tebro.
Orsù dunque chiunque si sia capace della mia trisonia, vengami seguace e tengami dietro, ché mi istrado in Libetro e vado a diporto nell’orto con le sorelle aonie, belle zitelle eliconie. E la fontana pegasiana m’innonda così feconda, che non m’occorre l’asciuttarello rimario del Ruscello, né mi soccorre il crusco vocabolario etrusco, non avendo inopia, ma possedendo copia di parole inaudite e di cantafole erudite. Però stampo, e (se non inciampo) spero da dovero d’esser chiamato ed additato per caporione di questa nuova invenzione, che giova e diletta a chi ha testa perfetta. Se sarete amici m’imitarete. Vivete felici.
Servitore di core,
del vostro inchiostro
amico corporeo,
Lodovico Leporeo.


48
Leporeambo alfabetico duodecasillabo trisono satirico irrepetito
Vuole asteriscare le sue parole nuove

escole,iscole,oscole,uscole

Vo a caccia e in traccia di parole, e pescole
Dal rio del cupo oblio, le purgo, e inciscole,
Poi con ingegni degni conferiscole,
Che a vederle son perle e non baltrescole.

Da ferrugine e rugine rinfrescole
E da la muffa e ruffa antica spriscole;*
Poi con indici ai sindici asteriscole,
E senza stento a mille, a cento accrescole.

Dalle muraglie d’anticaglie sboscole,
Minime, semiminime, e minuscole,
E sappi il mondo attondo che io conoscole.

Ciarlino pure le censure cruscole,*
Ché a genti intelligenti e a torme toscole*
Le vo’ mettere a lettere maiuscole.

Vado a caccia e in cerca di parole, e le pesco dal fiume del cupo oblio, le purgo e le seziono, poi le sottopongo al giudizio di persone degne, che a vederle sono perle e non cose insignificanti. Le rinfresco dalla ruggine e le svecchio dalla muffa e dal sudiciume antico; poi le segnalo con asterischi ai revisori, e senza fatica le accresco a cento, a mille. Le libero dalle rovine antiche, siano pur minime, semiminime e minuscole, e sappia il mondo circostante che io le conosco. Ciarlino pure le censure della Crusca, ché, per le persone intelligenti e per le torme di puristi toscaneggianti, io le voglio scrivere a lettere maiuscole.


17
Leporeambo alfabetico trisono tredecasillabo satirico irrepetito
Si ride delli suoi emoli

acolano, ecolano, icolano, ocolano

Zoili senz’arte mille carte macolano,
E ‘l tesor de l’Alunno ognor sbazzecolano,*
Il Calepino e ’l Pergamino specolano,
E de la Crusca la mollusca svacolano.*

D’entusiasmo e spasmo rio s’infiacolano,*
E lo stil mio gentil cercopitecolano,*
Di qua, di là, di su, di giù trasecolano,
E i versi miei quai carosei spettacolano.*

La notte e ’l die apologie mi articolano,
E di mia poesia tra lor si giocolano,
Ma d’ammutir, d’intisichir pericolano.

Di gran disnor e crepacor s’infocolano,
E a far chimere a schiere conventicolano,*
E a tacciarmi e sguerciarmi* si monocolano.*


Critici pedanti e malevoli (come Zoilo di Anfipoli che, nel IV sec. a. C., aveva biasimato la mancanza di verosimiglianza e di unità tonale nell’opera di Omero) macchiano malamente migliaia di carte ed esaminano con acribia i repertori lessicografici di Francesco Alunno (1485 ca. – 1556), passano minuziosamente in rassegna il Dictionarium latinum (1502) di Ambrogio da Calepio e il puristico Memoriale della lingua italiana (1602) di Giacomo Pergamino da Fossombrone, passano in rassegna le inezie della Crusca [lett.: “tolgono il gheriglio alla mollusca”, noce particolarmente tenera]. Si infiammano come una fiaccola di furore poetico e scimmiottano il mio stile, trasecolano ad ogni piè sospinto e leggono i miei versi meravigliandosi come davanti ai caroselli [= evoluzioni a cavallo durante le quali ci si gettavano palle di creta]. Notte e dì scrivono di me e tra di loro si fanno gioco della mia poesia, ma rischiano di ammutolire e intisichirsi. Bruciano dal disonore e dal crepacuore, si riuniscono a schiere a fantasticare e, a forza di zittirmi e accecarmi, finiscono per diventar guerci loro.


92
Leporeambo alfabetico endecasillabo satirico sestisono irrepetito
Vende tela per compra vino e frutti

ando, endo, indo, ondo

Il fil sottil gentil, zenzil filando,
tesso esso stesso, e ‘l nesso spesso stendo,
Bianco e stanco, anco, a fianco il banco, ordendo
In qua e in là la man dà, sta, va tramando.

Di quel bel vel novel gran tel spiegando
Al sol e al suol, a stuol che ‘l vuol sol vendo,
E al par cambiar, far trar denar pretendo
In vin rubin, cedrin, sorbin comprando.

Canea* Verdea, che bea cea dea di Pindo,
per ber intier bicchier primier profondo,
Pesche, esche fresche a mesche tresche brindo.

Tanto ho prò, che però sto mò giocondo,
Né v’è mercé per me del re dell’Indo
Qual al mio mal regal vital nel mondo.

Filando il sensile [= filato simile alla seta], tesso lo stesso filo sottile gentile, e stendo sul telaio l’ordito, bianco e stanco, anche, di fianco al banco, ordendo di qua e di là la mano fa, si ferma, va tramando. Distendendo per terra, al sole, una gran tela di quel bel velo nuovo, lo vendo solo allo stuolo che lo vuole, e pretendo di cambiarlo alla pari, di far tirar fuori denaro per comprare vino rubino, paglierino, simile alle sorbe (per colore o sapore). Per bere Verdea [= vino bianco toscano] proveniente da La Canea (Creta) – che delizia la musa dell’isola di Ceo, ispiratrice di Pindaro –dapprima riempio un bicchiere intero, poi brindo con pesche, freschi stimoli a danze [la tresca è un ballo contadino] intrecciate [o a tresche amorose]. Mi fa così buon pro, che per questo sono adesso giocondo, e non c’è ricchezza del Gran Mogol pari a questo piacere che infonde vita, guarendo il mio male.

(Da Centuria di Leporeambi, 1651 o 1652)
* Le parole asteriscate sono neologismi creati dall’autore.



Leporeambo duimetro duisono endecasillabo satirico equidistante
Imita Omero in bevere e scrivere

ero, iro, oro, uro

Son poeta di bieta, imito Omero:
ché di vin mero inebriomi d’Epiro,
ma non deliro e meglio fo il mestiero
di canzoniero e carmi d’armi stiro.

Metrico spiro entosïasmo vero
e bombardiero avanzo Achille diro, 
e canto d’Iro, Ulisse ed il guerriero 
Ettore fiero, e spessi rutti tiro.

 

A lauree aspiro d’apollineo alloro
minio e lavoro come Alberto Duro, 
a chiaro scuro avanzo Polidoro.
 

E s’io non moro tisico maturo,

esser m’auguro corifeo del coro, 
poiché, com’oro, il vino urino al muro.
   

(Riportato in Parnaso Italiano. Poesia del Seicento, a cura di C. Muscetta e P. P. Ferrante, Torino, Einaudi, 1964, e ripreso in Così per gioco. Sette secoli di poesia giocosa, parodica e satirica, a cura di Guido Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2001)

 

Sono un poeta dappoco, imito Omero: poiché mi inebrio di vino schietto dell’Epiro, ma non vado in delirio, faccio meglio il mestiere di scrittore di canzoni e stendo poemi cavallereschi. Spiro un furore metrico autentico e, armato di bombarda, supero il feroce Achille, e canto Iro [il mendicante che tentò di scacciare Ulisse dal portico della sua reggia], Ulisse e il fiero guerriero Ettore, e tiro un sacco di rutti. Aspiro a essere coronato dall’alloro apollineo, faccio miniature e lavoro come Albrecht Dürer e nel chiaroscuro supero Polidoro da Caravaggio. E, se non muoio di tisi, spero di diventare capo del coro, poiché, simile all’oro, piscio il vino sul muro.


 

 

LUDOVICO LEPOREO

(Brugnera, Pordenone, 1582 – Roma o Friuli, 1655 circa)

La poetica di Ludovico Leporeo sta tutta nelle parole dell’introduzione alla Centuria di leporeambi, dove:
1 - dichiara chiaramente l’insofferenza nei confronti dei limiti di una lingua letteraria purista, codificata dall’Accademia della Crusca nel suo Vocabolario (1a ed. 1612, 2a ed. 1623) e da Girolamo Ruscelli (1518-1566) in un fortunatissimo rimario che sarebbe rimasto in uso dal 1559 fino alla metà del XIX secolo: non m’occorre l’asciuttarello rimario del Ruscello, né mi soccorre il crusco vocabolario etrusco;
2 - rivendica il diritto a una scrittura estremamente libera nel lessico (non avendo inopia, ma possedendo copia di parole inaudite e di cantafole erudite) ma estremamente cogente nella struttura (ho ritrovata e publicata una norma poetica di forma bisbetica, e con licenza dell’eccellenza d’Apollo ho fatto un rollo ed una vasta catasta di rimucciole sdrucciole e componimenti scivoli), utilizzando uno schema metrico che sistematizza l’uso delle rime interne e introduce l’uso esclusivo di rime – poste in ordine alfabetico – differenti solo per la vocale tonica.
Ma quando dico che la poetica di Leporeo “sta tutta nelle parole dell’introduzione”, lo intendo anche in un senso più profondo (o, in un certo senso, più superficiale), perché non conta solo quello che si dice, ma anche come lo si dice, e dunque la forma è altrettanto importante del contenuto: il tono scherzoso e le continue rime interne denunciano la vena satirica e il gusto per il gioco del poeta, preannunciando le caratteristiche dei leporeambi, nel tema e nello schema. Una presentazione, dunque, autoreferenziale, allo stesso modo di sonetti come il n. 48.

Analizziamo tecnicamente i testi.
Innanzitutto si tratta di sonetti (Leporeo scrisse soprattutto sonetti, ma anche anche ottave e deche, cioè componimenti di 8 e 10 versi): una forma già di per sé abbastanza cogente:
- versi endecasillabi suddivisi in
- 2 quartine con sole 2 rime, seguite da
- 2 terzine con 2 (o 3 ) rime.
A questi vincoli Leporeo ne aggiunge altri:
            - le rime sono omeoteleutiche (= simili): differiscono  solo
            per la vocale tonica,
            - le rime appaiono in ordine alfabetico,
            - altre rime compaiono all’interno dei versi,
            - le parole che rimano non si ripetono mai.
A questo tipo di composizione l’autore, rivendicandone l’invenzione, dà il nome di “leporeambo” (calco di “ditirambo”). Che, aggiungo io, fa rima con “strambo”, il che non è un male, per versi così perversi.

Perciò le definizioni dei sonetti vanno così interpretate:
48 - Leporeambo alfabetico duodecasillabo trisono satirico irrepetito
Leporeambo con rime in ordine alfabetico, versi endecasillabi sdruccioli (→ 12 sillabe), 2 rime interne e 1 finale (= 3 rime), satirico (contro i puristi conservatori della lingua), senza ripetizioni di parole nelle rime.
17 - Leporeambo alfabetico trisono tredecasillabo satirico irrepetito
Leporeambo con rime in ordine alfabetico, 2 rime interne e 1 finale (= 3 rime), versi endecasillabi bisdruccioli (!) (→ 13 sillabe), satirico (contro chi tenta invano di emularlo), senza ripetizioni di parole nelle rime.
92 - Leporeambo alfabetico endecasillabo satirico sestisono irrepetito
Leporeambo con rime in ordine alfabetico, versi endecasillabi (→ 11 sillabe), 5 rime interne (!) e 1 finale (= 6 rime), satirico (contro chi cerca di accumulare ricchezze?), senza ripetizioni di parole nelle rime.

L’ultimo leporeambo presenta caratteristiche particolari:
            - due rime interne
                        - all’inizio del primo verso,
                        - alla fine dell’ultimo verso,
            - ogni endecasillabo – a parte il primo – è diviso in 1 quinario e
             1 senario:
            - ogni senario rima con il quinario seguente (rima al mezzo).
Per cui la sua definizione va così intepretata:
Leporeambo duimetro duisono endecasillabo satirico equidistante
Leporeambo con i versi suddivisi in  due parti (quinario + senario), due rime per verso (1 rima al mezzo e 1 rima finale), endecasillabi (→ 11 sillabe), satirico (si fa gioco della poesia seria), rima al mezzo in posizione fissa.

Leporeo è interessato esclusivamente all’aspetto fonico della parola, alla musicalità del verso; per questo evita gli artifici attinenti al segno grafico, come l’acrostico, ed è quasi sempre alieno dal concettismo tipico dei suoi contemporanei. È un uomo del Seicento e anche la sua, come quella di Giambattista Marino, è una poetica della meraviglia; meraviglia trasferita, però, dal piano delle cose a quello delle parole (senza tuttavia mai arrivare al nonsense: la meraviglia nasce appunto dal fatto che alla coerenza delle strutture corrisponde una coerenza di contenuti).

Per arrivare a questi risultati Leporeo fa uso di un lessico amplissimo (e, nel sonetto 48, ne rivendica il diritto):
- vocaboli desueti (avvotarsi, disdegnevole, matino, avvantarsi, nannare) (ma è un recupero consapevole, non acritico e incondizionato come quello della Crusca: Gli antichi carmi giudico arabeschi / che da cotesta età chiamano i fischi, / non v’è lima gentil che li pulischi, né crogiol che li purghi e li rinfreschi.);
- termini specialistici (soprattutto nei settori del denaro: quattrini, giulî, dobloni, carlini, tarì, doppie, paoli, baiocchi, e della gastronomia: animelle di vitelle, merli in guazzetto, salumi di Bretagna);
- latinismi (triche, stiria, illidere, ilo, evio, decerpere, arpasto, teriaca, catadupi, sinanche, pirausto, omeromastico, pancrestico);
- regionalismi (romaneschi: caciotti, pescuglia; settentrionali: imbosmare, urzo, toscani: bambo, denaio);
ma anche di
- neologismi di sua creazione, mediante
- suffissazione (per passare dal nome all’aggettivo, o viceversa, o dal verbo all’aggettivo);
- prefissazione (in particolare con la s- privativa e l’in- illativo): spriscole (sonetto 48), sbazzecolano, svacolano, sguerciarmi; s’infiacolano (sonetto 17);
- formazione di deverbali (pochi), cioè di nomi che derivano da verbi;
- formazione di denominali (tantissimi), cioè di verbi che derivano da nomi: asteriscole (sonetto 48), cercopitecolano, spettacolano, conventicolano, monocolano (sonetto 17);
- usando il nome proprio come nome comune (Don Diego per indicare un signorotto spagnolo borioso e prepotente, il toscano Ceccobimbo per indicare l’uomo qualunque, il poveraccio);
- ponendo al plurale i nomi di personaggi illustri (gli Zoili (sonetto 17), i Cresi, gli Argo, gli Evandri, i Cerberi, gli Alessandri Magni);
- o ricavandone verbi e aggettivi (zopiricare e zopireo, tomiricare, androgio, pegasiano, nestoreo, circeo, cerbereo, zeusio, tiresio);
- ricavando aggettivi dai nomi di luoghi (ortelico, nisito, varrano, farnesio, colombeo, cesio, cormontico).

Questa ricchezza ed eterogeneità del lessico – unita alle esasperazioni foniche dello schema metrico – è funzionale alla poesia satirica (dove l’aggettivo “satirico” assume un’accezione ampia, oraziana, di tema relativo alla vita quotidiana), che è il registro più congeniale al Leporeo. L’accostamento del sublime al prosaico permette a Leoporeo di superare le regole cinquecentesche (soprattutto del Bembo) del decoro e di farsi gioco, per esempio, di poeti come il Marino, che rivendicava la propria vocazione di poeta ispirato: a Leporeo il vino fa spirare, sì, furore poetico, ma anche spessi rutti; lo spinge a miniare le pergamene come Albrecht Dürer, certo, ma, alla fine, anche a decorare i muri con l’oro della sua urina.
Capita spesso di rimanere ammirati davanti ai funambolismi verbali di un poeta del Seicento o di un enigmista contemporaneo: ammirati sì, ma freddi. Anche Leporeo suscita ammirazione; ma insieme all’ammirazione sa creare divertimento, e questa è una qualità rara. Bagnati dunque dal suo ”oro” e inebriati dal suo estro poetico, zuppi ma felici, gli tributiamo un applauso e – perché no? Non credo che se ne avrebbe a male – un rutto.

Concludo con un mio debole tentativo di imitazione, il mio primo sonetto (e, almeno per ora, anche l'ultimo):

MI PIACEREBBE SCRIVERE UN SONETTO

Mi piacerebbe scrivere un sonetto,
però non so se a scriverlo son atto.
Ci penso sempre e mai non mi ci metto:                   
potrebbero pensare che son matto.

A scrivere su schema fisso tu sei stretto,
rigidamente prefissato e astratto:
del poetare è l’abito perfetto
e dai poeti è il preferito affatto.

Ma ora che il mio panico è sconfitto
dinanzi all’ingombrante verso dotto
perché finire vedo il mio tragitto

e nel sonetto ho intinto il mio biscotto,
a filastrocche torno dritto dritto,
a versi le cui sillabe son otto.


NOTA
Rime: -etto, -atto, -itto, -otto.
Assonanze: sonetto, son atto (all’inizio), son otto (alla fine); metto, matto; -stretto, -stratto; -fetto, -fatto.


(Disegno di Fernanda Michelini.)


LETTURE CONSIGLIATE

- Ludovico Leporeo, Leporeambi, Torino, Edizioni RES, 1993.
Edizione moderna della Centuria di Leporeambi (1652) e di Altri Leporeambi (1682), con una approfondita introduzione e preziose note di Valter Boggione.


SITI INTERNET

            Testi digitalizzati di
            Centuria di leporeambi
            Altri leporeambi

Sito curato da Loris Pellegrini:
- la vita e le opere di Ludovico Leporeo;
- introduzione alla lettura e testo integrale dei
           Leporeambi nominali.

Voce su Ludovico Leporeo del Dizionario Biografico
         degli Italiani, Treccani editore.


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