lunedì 26 dicembre 2016

Etichette curiose: PROSECCO CA’ VAL




Prosecco
CA’ VAL


Per varare questa nuova rubrica – Etichette curiose – trovo doveroso cominciare col botto: con un prosecco. Se la marca me l’avesse nominata un amico, avrei capito “Caval”, inteso come mammifer erbivor del gener Equo (Equus caballus) (De Mauro).
Ma nessuno me ne aveva parlato e, quando la bottiglia mi è capitata fra le mani, la scritta era chiara: “Ca’ Val”, dove ca’ va intesa come edif’ suddiv’ in stanz’ o in appart’, adib’ spec’ ad ab’ (De Mauro).
La cosa curiosa è però il logo, dove il grafico si è divertito (col consenso o su sollecitazione del produttore) a equivocare: leggiamo ca(sa) e vediamo due caval(li). In effetti il logo è strutturato come un’insegna araldica, e due cavalli lo nobilitano molto più di una casa: trasformano il produttore in cavaliere anziché in casalingo.
Senza contare che, oltretutto, i cavalli possono richiamare, alla lontana, il logo Ferrari (anche se, invece del noto spumante, si tratta della notissima casa automobilistica).
Non posso non pensare al prode Anselmo di Giovanni Visconti Venosta: se invece di partire a cavallo di un caval, ma con l’elmo – che usava per bere – che perdeva da un forellino, fosse partito a cavallo di un Ca’ Val, attaccandosi al collo della bottiglia non sarebbe morto di sete!
Per concludere: e se il produttore, anziché Val, si fosse chiamato Caval? La sua sarebbe stata la cacofonica (e ho detto tutto) azienda di Ca’ Caval...



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lunedì 10 ottobre 2016

Parole misteriose: AMBARABÀ CICCÌ COCCÒ





Ambarabà ciccì coccò,

tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si arrabbiò/ ammalò,
ambarabà ciccì coccò.



Illustrazione di Bruno Munari
(da: Nico Orengo, A-ULÍ-ULÉ. Filastrocche, conte, ninnenanne, Torino Einaudi, 1972.)

Ambarabà ciccì coccò l’abbiamo sentita e ripetuta tutti, da bambini, senza porci troppe domande: una filastrocca esiste e basta, fa parte da sempre del nostro paesaggio mentale. E non è strano che una filastrocca sia strana: i suoni e i ritmi sono più importanti del senso.
Però, a guardarla bene, Ambarabà è strana davvero. Intanto può essere divisa in tre parti nettamente caratterizzate e diverse:

1 – primo verso
Ambarabà ciccì coccò
parole sconosciute, verosimilmente inventate, senza alcun significato;

2 – secondo verso
tre civette sul comò
parole conosciute, ma accostate senza una logica apparente, per costruire una scena incongrua, surreale: un nonsense;

3 – versi successivi: 
che facevano l’amore
[...]
una storia con una logica più o meno credibile.

È un testo che va dall’oscurità alla chiarezza, dal criptico all’intelligibile, passando attraverso l’assurdo. Le sue tre parti sembrerebbero paragonabili a strati geologici sovrapposti, formatisi in epoche successive, e potrebbero testimoniare un processo creativo a tappe, sviluppatosi per successive aggiunte.
Esaminiamole allora una per una.

1 – Ambarabà ciccì coccò
Vermondo Brugnatelli, nel suo articolo Per un’etimologia di “am barabà ciccì coccò”, parte da queste due ultime parole, notando come esse violino una tendenza universale, tipica dell’invenzione liguistica ludica, a creare coppie di parole che si differenzino solo per una vocale, mantenendo invariate le consonanti e le eventuali altre vocali. Di solito si passa dalla “I” della prima parola alla “A” (oppure “O”) della seconda parola. Brugnatelli la chiama la regola del ciff e del ciaff.
Volete alcuni esempi? Eccoli:
– onomatopee e termini espressivi: tic tac (dell’orologio), din don dan (delle campane) tip-tap (ballo), tricchetracche (strumento a percussione napoletano), ninna nanna, ping-pong;
– nomi di personaggi: Tip e Tap (nipoti di Topolino), Qui Quo Qua (nipoti di Paperino), Bibì e Bibò (figliastri del capitan Cocoricò), King Kong;
– accoppiamenti fraseologici: così e/o cosà, di riffa o di raffa, chi non risica non rosica;
– marchi commerciali: KitKat (merendina), Kitekat (cibo per gatti);
– sigle: lib-lab (accordo fra Liberali e Laburisti).
Apparentemente, per noi alfabetizzati abituati a visualizzare le parole nella loro forma scritta, la coppia ciccì coccò rispetta la regola perché la consonante permane invariata; ma è una permanenza solo visiva, perché il suono è ben diverso: dolce – o palatale – (“C” di “Cina”) nella prima parola, duro – o velare – (“C” di “china”) nella seconda parola. Per rispettare la regola la pronuncia originaria sarebbe dunque stata kikkì kokkò (o, se preferite la grafia italiana moderna, chicchì coccò); ma per ritrovare questa pronuncia dobbiamo risalire addirittura a prima del V secolo, in epoca latina! E, cercando parole latine dotate di significato, Brugnatelli arriva alla conclusione che am barabà ciccì coccò potrebbe essere la corruzione di hanc para ab hac quidquid quodquod. Presupponendo che il significato del verbo latino parare fosse già slittato da quello originario di “preparare” a quello moderno di “riparare, proteggere”, Brugnatelli ipotizza che si trattasse di una conta infantile: “questa [mano] ripara dall’altra”, con finale nonsense: quidquid quodquod, rispettivamente pronome indefinito relativo neutro e aggettivo neutro = qualunque, chiunque.
Non che questo (presunto) originale abbia un gran senso, ma si tratta di una filastrocca infantile, no? E comunque l’ipotesi di Brugnatelli, se non è vera, è ben pensata.
A noi alfabetizzati la cultura orale sembra labile e ci pare impossibile che possa durare così a lungo del tempo. Ma, per fare un esempio, due studiosi (Sara Graça da Silva dell’Università di Lisbona e Jamshid Tehrani dell’università di Durham), ricostruendo l’albero filogenetico delle fiabe indoeuropee, sono giunti alla conclusione che esse hanno origini più antiche di quanto si pensasse: La bella e la bestia è risultata risalire a 4000 anni fa e Il fabbro e il diavolo addirittura a 6000!

2 – tre civette sul comò
Se qualcuno, in epoca moderna, avesse voluto dare una continuazione a questa formula misteriosa che arrivava dalla notte dei tempi, che cosa avrebbe potuto fare? Partire dal senso era impossibile, perché non c’era o era andato perduto. Cosa restava? Farsi guidare dai suoni:
ciccì → ci... ci... civetta!
coccò → co... co... [una parola tronca, per favore] comò!

3 – che facevano l’amore
[...]
Adesso che abbiamo i personaggi, bisogna inventare una storia.
Che ci facevano tre civette su un comò? facevano l’amore con la figlia del dottore. Alt! Non fate quella faccia, nella storia non c’è nulla di licenzioso: fino a qualche decennio fa, fare l’amore con significava semplicemente, “fare la corte a”, “essere fidanzato con”. E la fidanzata la si andava a visitare a casa, alla presenza dei parenti: ecco il ruolo del comò, più pratico – per appollaiarsi – di un divano. Solo che il padre questa volta era all’oscuro della cosa (o non gradiva gli spasimanti della figlia); e allora si arrabbiò (o, ironia della sorte e massima onta per un medico, si ammalò, di dolore naturalmente).

P.S.
E la filastrocca sorella, An ghin gon (o Anghingò), potrebbe avere un’origine simile? Secondo Brugnatelli sì: hanc hic huc = questa [mano?] da qui a qua.


SITI INTERNET
L’imprescindibile articolo di Vermondo Brugnatelli, Per un’etimologia di “am barabà ciccì coccò", si trova qui: 

L’articolo di Vermondo Brugnatelli, La “regola del ciff e del ciaff”, si trova qui:

Sull’antichità delle fiabe: Elena Dusi, C’era una volta nella preistoria... Quanto antiche sono le favole (La Repubblica, 22 gennaio 2016): 


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martedì 31 maggio 2016

FARE UNA FILASTROCCA – 13




PARTIRE DAL TITOLO
LA FILA-STRACCA



Qualche anno fa stavo riposando, lasciando andare i pensieri a ruota libera. A un certo punto, provando variazioni sulla parola filastrocca, è saltata fuori una fila-stracca. Che bello! Mi piaceva molto l’idea di una fila-stracca. Titolo bellissimo: valeva la pena di scriverci dietro un’intera filastrocca. Già, ma come? Cosa scrivere? A quei tempi ero ancora alle prime armi, non avevo la pratica di adesso: ci ruminai sopra per una settimana.
Procedetti su due binari separati (ma che poi, alla fine, si riunirono):
1 – cercare tra i miei appunti (appuntatevi sempre idee, battute, rime: non fidatevi mai della memoria!) qualche battuta che facesse riferimento alla stanchezza;
2 – cercare rime in –acca.
1 – La battuta? Trovata: “Ho le anche stanche.” “E i fianchi?” “Anche!”. L’ho elaborata per creare la prima parte, dedicata alla fiacchezza.
2 – Le rime? Trovate anche quelle, soprattutto una, magica: cacca → da usare per il finale. Usai queste rime per creare la seconda parte, dedicata, data la fiacchezza, alle cose da non fare (tranne una, naturalmente!).
È nata così:

LA FILA-STRACCA

Se le gambe senti flosce,
se le cosce sono mosce,
Se i tuoi stinchi sono stanchi,
e anche le anche, e anche i fianchi,
se vuoi battere la fiacca
(od almeno fare patta),
presto detto, è cosa fatta,
non scordar la fila-stracca:

non ti mettere la giacca,
non portare via la sacca,
non andare fino a Sciacca,
non nuotar nella risacca,
non ballare la polacca…

ma comunque fai la cacca!


La fila-stracca
fa parte della raccolta
Sarnus editore, aprile 2012.

Se l’argomento ti interessa, puoi leggere anche:


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lunedì 25 aprile 2016

CARLO VITA ovvero VERSI PER VERSI



(Tratto da Rassegna XXXVIII, n. 4-5, 1961, inserto Tempo libero, pag. VI; selezione di poesie del volume Versi per versi, edizione privata, s. d. ma 1958 o seguenti.)




 CARLO VITA
 pseudonimo di
 VITA CARLO FEDELI
 (Verona, 28 luglio 1925 – vivente)

  
Quand’ero bambino, rovistando fra le carte di mio padre – che faceva il veterinario – mi imbattei in una rivista dei primi anni ’60, Rassegna, che ad articoli di divulgazione scientifica e di informazione medica e veterinaria affiancava la trattazione di argomenti artistici e culturali. E così i pezzi dedicati agli sviluppi futuri dell’uso dell’interferone e alla situazione presente del fallout radioattivo nei nostri cieli si alternavano a strani quadri (Guttuso, Dubuffet, ecc.) e ad architetture modernissime (l’appena costruito Segram Building, la futura torre dell’Expo di Seattle).
Allora non me ne rendevo conto, ma fra i collaboratori comparivano nomi d’eccezione: un giovane Umberto Eco (presentato come un giovane professore di estetica ed esperto di zen, Rassegna XXXIX, n. 5, 1962, inserto Tempo libero, pag. III) commentava le novità teatrali, e non solo; un già affermato Dino Buzzati (che, rifiutando la qualifica di pittore della domenica, si autodefiniva pittore del mercoledì, Rassegna XXXVIII, n. 4-5, 1961, inserto Tempo libero, pag. 61) si occupava, con un certo ironico distacco, di arte moderna.
Proprio in quest’ultimo numero di Rassegna, sempre nell’inserto Tempo libero, a pag. VI, comparivano le poesie di Carlo Vita che avete trovato all’inizio di questo post. Leggendole da ragazzino non potevo cogliere i rimandi scherzosi a poesie famose; mi piacque molto invece la profferta amorosa dell’Otorino appassionato.
Qualche giorno fa, cercando gli articoli di Eco, quelle poesie mi sono ricapitate sotto gli occhi: serendipità. Belle, mi sono detto, sembra Gino Patroni; ma chi è questo Carlo Vita?

A cercare in Internet si trova ben poco: qualche riga in Wikipedia e la voce biografica de Il Canneto Editore; se si ha fortuna si scopre, nel sito di academia.edu, un articolo di Massimo Bacigalupo. Scopriamo che, giornalista passato poi alla comunicazione aziendale, si è occupato, nel tempo libero, di amabili fanfaluche (parole sue): libri di versi (scherzosi o seri), dipinti incisioni e illustrazioni, oltre a una biografia del padre, primo sindaco della Verona nel dopoguerra.
Si tratta prevalentemente di edizioni private, stampate in poche copie per gli amici, quasi tutte pubblicate dopo i settant’anni: uno scrittore semisconosciuto, dunque.

Il libro più interessante, dal mio personalissimo punto di vista è proprio quel Versi per versi antologizzato in Rassegna, così presentato dall’autore:

Questi versi sono stati composti nella primavera del ’58 in bagno e sul lavoro, non essendosi ancora dischiuse all’autore – a quel momento estraneo all’industria – le meraviglie del tempo libero.

È un’edizione privata: tanto privata che l’autore non è indicato in copertina né col vero nome, né col nome d’arte, ma col soprannome con cui lo chiamavano gli amici: Popi.
La copia in mio possesso reca la seguente dedica:

A Normanna
e Vasco
con affetto
l’autore

L’autore! Invece di firmare col suo nome, scrive l’autore! Mi ritrovo con un libro con dedica autografa senza autografo: si possono immaginare dei versi più perversi (tuttoattaccato)? 

Ma c’è anche una dedica a stampa, rivelatrice:

A Gino P.
tornato da La Spezia

Dove Gino P. sta a indicare senza dubbio Gino Patroni: l’affinità con le sue poesie è evidente. (Per leggere i miei post su Gino Patroni clicca qui, qui, e qui.)
Come in Patroni troviamo una poesia che parodizza la poesia ermetica, estremizzandone la frammentazione in versi irregolari, che diventano estremamente brevi; e come in Patroni troviamo un uso parco della rima.
Come in Patroni troviamo giochi di parole, anche se Vita non ne fa l’uso ossessivo e insistito di Patroni:

DRAMMA AL CIRCO

L’uomo serpente
è morto
in giornata
vittima
della sua
ambizione
snodata.


ONORIFICENZA

Al cavalier
Rapetti
(Ufficio Quarto)
colpito
da infarto
daranno
(giusto onore)
la medaglia
al malore.

Come in Patroni troviamo doppi sensi: un esempio è ODIO IL POMPIERE, citato all’inizio di questo post. Eccone altri:

SOCIALITÀ

Da oggi
cari operai
(anzi,
miei figli!)
voglio farvi
partecipi
di utili
consigli.


PRECOCITA’

Di buon’ora
si leva
la donzella
camicia
e sottanella.

Come in Patroni, troviamo la tecnica dell’annuncio: in Patroni è il finto titolo di giornale, in Vita è il finto annuncio economico; un esempio è quello del ragioniere, citato alla voce ANNUNCI ECONOMICI all’inizio di questo post. Eccone un altro:

Vedova
bella
presenza
cederebbe
anche
subito
a dolce
violenza.

Come in Patroni troviamo la citazione di versi celebri e l’uso della tecnica umoristica dell’abbassamento del tono; un paio di esempi, citati all’inizio di questo post, sono:

DOPO L’EPOPEA

Riferimento: Luigi Mercantini, La spigolatrice di Sapri, 1857.

Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti.
[…]


SVENTOLE A TINDARI
Riferimento: Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari, in Acque e terre (1930).

Tindari, mite ti so
[…]


Ecco altri esempi:

MANZONIANA

Soffermati
sull’arida
sponda
guardiamo
una bionda.

Riferimento: Alessandro Manzoni, Marzo 1821, 1821, ode pubblicata nel 1848.

Soffermati sull’arida sponda
Vòlti i guardi al varcato Ticino,
Tutti assorti nel novo destino,
Certi in cor dell’antica virtù,
Han giurato: non fia che quest’onda
Scorra più tra due rive straniere;
Non fia loco ove sorgan barriere
Tra l’Italia e l’Italia, mai più!

[…]


LA CASA DEI DOGANIERI

Tu
non ricordi
la casa
dei doganieri.
Tu
non ricordi
perché
non c’eri.

Riferimento: Eugenio Montale, La casa dei doganieri, dalla raccolta di poesie La casa dei doganieri e altri versi (1932), poi confluita in Le occasioni (1939).

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

[...]

(Si noti il ruolo fondamentale della rima, che conferisce un carattere di necessità alla chiusa inaspettata.)

Come in Patroni, l’abbassamento può essere ottenuto non solo completando, ma anche modificando un verso celebre (ricordiamo la parodia di Patroni del verso di Quasimodo Ed è subito sera: Ed è subito pera). Ecco un caso in cui l’abbassamento va oltre l’umorismo, diventando evocazione di un dramma collettivo:

PENSIERO DI GUERRA

Verrà
la morte
e avrà
i pidocchi.

Riferimento: Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, poesia pubblicata postuma, 1951.
Il procedimento vale naturalmente anche per episodi e frasi famose, che Vita non cita, ma sottintende:

VAE VICTIS

Brenno
gettò
sul piatto
della dura
bilancia
la sua spada
e disse: 
– Me la incarti –.

Riferimento: Brenno, capo dei Galli che sconfissero nel 390 a. C. i Romani, alle loro proteste perché venivano usati pesi falsi per misurare l’oro del riscatto, gettò la sua spada sulla bilancia, nel piatto dei pesi, gridando: “Vae victis!” (“Guai ai vincitori!”).
 

COMPLIMENTI


Dopo
di lei
prego, 
Diluvio. 

Riferimento: Après nous, le déluge (= dopo di noi, il diluvio), frase attribuita a Madame de Pompadour, amante di luigi XVI.

Come in Patroni, troviamo talvolta l’abbandono al puro divertimento, al nonsense:

CAMPAGNA DI RUSSIA
Napoleone,
Napoleone,
hai tanto freddo
senza maglione?


S.O.S.

Mi
si
è
rotto
il
pache-
botto!


RICORDI D’INFANZIA

L’albero
che spalanca
le sue finestre
verdi
sul cortile
mi ricorda
la mia
casa infantile
Ma è solo
una strana
illusione
perché
la mia
casa lontana
aveva
finestre marrone.

(La poesia consta di due sole frasi: si noti come l’accatastamento delle parole in versi brevissimi – in luogo della lineare esposizione in prosa – ne frammenti la lettura, prolungando l’attesa e posticipando la sorpresa finale.)
L’esito può essere straniante e poetico:

PAESAGGIO ITALIANO

Una vecchia
città
sdraiata
sul sofà.

Come in Patroni, non mancano momenti di amarezza:

O ROMA O MORTE 

Ed or
che spalancate
son tutte
le tue porte
penso
che forse meglio
era sceglier
la morte.


AUTUNNO

Ricadono le colpe dei padri
lentamente sulle colpe dei figli
e le colpe dei figli
sulle colpe dei padri
e delle madri
nelle sere autunnali.
Ricadono lentamente le colpe
da tutte le parti
con le loro stanche ali
ed io voglio dirti,
ragazzo che ti meravigli,
che questo accade
dentro e fuori dei caffè
semplicemente perché
noi siamo tutti figli,
padri e madri
di poveri ladri.

Ma in Vita troviamo anche momenti poetici più sereni; si veda IL MARE, che nel libro è collocato subito dopo LA CONCHIGLIA:

LA CONCHIGLIA

Questa conchiglia
sul mio tavolino
è un omaggio.
Dentro si sente
il bollettino
per le navi
di piccolo
cabotaggio.


IL MARE

Se sai
ascoltare
anche
in una scarpa
si sente
il mare.


Ma se c’è questa straordinaria affinità fra i due poeti-umoristi, perché Patroni ha continuato per tutta la vita a produrre questo genere di poesia e Vita invece ha smesso subito? Versi per versi rappresenta infatti un unicum nella produzione di Carlo Vita (per quello che ne so: non ho potuto consultare Hai q?, 2003, Figure, probabilmente, 2005 e Illusioni ottime, 2006).
Forse a inaridire questa vena fu il passaggio all’industria, che gli dischiuse le meraviglie del tempo libero. E la poesia, si sa, si scrive a tempo perso, non nel tempo libero. (O si scrive quando il tempo libero è tanto: e infatti quasi tutti i libri di Carlo Vita sono stati pubblicati in tarda età, dopo la pensione.)
O forse fu colpa dei bagni: nell’industria, chissà, erano meno accoglienti (o sempre occupati).


LETTURE CONSIGLIATE

Io vi consiglierei il primo libro, Versi per versi; ma, ahimè, è introvabile: l’unica copia reperibile su Internet l’ho acquistata io. Se lo trovate in qualche mercatino o in qualche libreria antiquaria, non fatevelo sfuggire.

SITI INTERNET
Pagina di Wikipedia dedicata a Carlo Vita.

http://www.cannetoeditore.it/autore/carlo-vita/ 
Articolo di Massimo Bacigalupo su Carlo Vita, con alcuni inediti. Se seguite la procedura di iscrizione ad academia.edu potete scaricare l’articolo (in formato Pdf) e leggerlo.
 

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