lunedì 17 settembre 2018

BERNARDO BELLINI ovvero RISPONDERE PER LE RIME



BERNARDO BELLINI
(Griante, Como, 1792 – Torino, 1876)
(Tratto da: Bernardo Bellini, Il triete anglico)



Chi si ricorda oggi di Bernardo Bellini? Se vi è capitato sott’occhio il suo nome, probabilmente è stato sfogliando il monumentale Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, a cui collaborò. Collaborazione assai problematica, essendo, come scrive il suo biografo Pier Luigi Donini, commessa a due vecchi, dei quali l’uno acciaccoso assai e cieco [il Tommaseo], e l’altro sordo [il Bellini]. (Pier Luigi Donini, Bernardo Bellini, Stamperia Reale di Torino, 1876). Sembra quasi una prefigurazione del film Non guardarmi, non ti sento (See no Evil, Hear no Evil), regia di Arthur Hiller, 1989).
Tommaseo aveva scelto bene il suo collaboratore, perché la competenza linguistica a Bellini non mancava certo. Competenza indubitabile, ma Bellini a volte si faceva prendere la mano. Un esempio? Eccolo:

[…] Era il suo volto
Fra pallidetto e rubicondo, quale
è la sembianza d’Iride susina,
Dappoiché lievemente ebbele il dorso,
Ricurvo in arco, flagellato e scosso
L’acquosa di Vulturno ala sonante.
(Triete Anglico, VII)

Dove susina non è il noto frutto, ma una aggettivo derivato dal latino unguentum susinum, “unguento di gigli”; dunque: “Iride candida come un giglio”. Non mi credete? Andatevi a leggere la voce “susino” nel Dizionario del Tommaseo.

Non sempre la competenza però era sorretta dal gusto:

Una donna divelte ha le mammelle,
Scema è degli occhi, ed ha le trecce sciolte,
E tutta cincischiata è in sulla pelle.
(L’Inferno della tirannide, XX, 52-54)

Cincischiata?!? In un contesto così truculento? Il termine è del tutto fuori luogo, e così sortisce un involontario effetto comico anziché il desiderato effetto drammatico.

La (troppa) facilità di Bellini nell’improvvisare versi lo portava a volte a sconfinare nella sciatteria:

Ma se tu varchi là quel ponticello
Che fan le schegge (ed additollo a dito),
Anche più del voler saprai di bello.
(L’Inferno della tirannide, XIX, 25-27)

Additollo a dito?!? Per evitare la pleonastica ripetizione bastava scrivere “indicollo a dito”!

La stesura di un’opera enciclopedica come quella del Dizionario della lingua italiana fu un’impresa ambiziosa ed eccezionalmente impegnativa. Ma ambizione, capacità di lavoro e coraggio (o, meglio, temerarietà) non mancavano certo a Bellini. Come pure la vocazione alle imprese enciclopediche.
Aveva cominciato proponendosi di tradurre tutti i poeti classici greci, attirandosi l’ironia di Giacomo Leopardi: Certo la impresa  [...] è Erculea, o vogliam dire Atlantea [...]. […] ricordomi avere inteso dire che per ben tradurre sia mestieri avere in certa guisa l’anima dello scrittore che è da voltare in altra lingua. Or sarà possibile che il Sig. Bellini abbia le anime di tutti i poeti classici Greci? [...] Potremo noi credere che il Sig. Bellini sia egualmente atto a tradurre un poeta che un altro? Qualche maligno facilmente l’affermerebbe; non io. (Scritti letterari, Firenze, Le Monnier, 1899, vol. II, pp. 81 sgg.) L’impresa non venne portata a termine.
Detto per inciso, Leopardi e Bellini erano di tempra completamente diversa: aristocraticamente isolato il primo, cortigiano e adulatore il secondo. Il lombardo Bellini cercò infatti prima di ingraziarsi il dominatore austriaco, poi, nel 1848, fiutati i tempi nuovi, appoggiò la causa sabauda.
Bellini intraprese in seguito la compilazione dalla Pantografia (dal 1830?), un’opera di storia universale, in fascicoli periodici; opera incompiuta, per la progressiva diminuzione del numero degli acquirenti.
Scrisse pure trattati:
Callomazia: poema estetico-didascalico sul bello (Milano, 1850);
Ippopedia (Cremona 1818), trattato sui cavalli, in versi latini.
(Ecco, darsi all’ippica era la scelta più opportuna, direbbe qualche malizioso.)

Titoli classicheggianti, come si vede. Questo era il limite di Bellini: l’essere legato a una cultura e a un mondo che stavano morendo, cedendo il passo alle nuove istanze della modernità. Bellini era un dinosauro che non sapeva di essere in via di estinzione. E infatti la sua forma letteraria preferita era il poema. In quest’ambito la sua opera più ambiziosa fu la Colombiade (Cremona, 1826), monumentale poema sulla scoperta dell’America: ventiquattro Canti per un totale di 20 440 versi (li ho contati personalmente per voi, miei diletti; la Divina Commedia ne contiene “solo” 14 233).
Nei poemi Bellini poteva dispiegare tutta la sua cultura letteraria e la sua facilità di rimatore. Con esiti, a volte, involontariamente comici. Proviamo a leggere il canto X del Triete anglico (Milano, 1818), cioè il Triennio Inglese, precisamente quello 1815-17:

Durante la battaglia di Waterloo i Francesi portano lo scompiglio fra le truppe nemiche,

Quando alle timorose anime innante
Wellington si fa incontro, ira spirante.

[…]
Rimanti, o turba stolta, o gente inetta.
Grida. E solo all’ostil campo s’affretta.

Cammina sì, che lo diresti un mare
Quando surge gonfiato e urta la sponda,
E vedesi li boschi ardui appianare
Colla bollente correntia dell’onda.

Uno tsunami, insomma: si può fare tranquillamente a meno dei soldati, quando si ha un generale così. Ma arriva Napoleone, e sono guai seri.

Ovunque si fa loco, e la fortuna
Torce ad imo degli angli pugnatori.
Percossa in lui non scende, o se pur giunge
inutil torna, o lievemente il punge.

Non provateci ragazzi, Napoleone è praticamente invulnerabile (tranne sulla pancia, direi, dal momento che nei suoi ritratti l’ho quasi sempre visto tenerci la mano)!

[…] ad ambe man l’acciaro
Impugna […].
Quattro fessi ed ancisi al suolo andaro
Dal fero braccio nel ferir maestro,

(Fero, ferir: non male come allitterazione.)

Ma la spada in tre pezzi infranta cade,
E un gel di morte i circostanti invade.

Si è rotta la spada? Nessun problema:

Un ferrigno petron ghermisce, e scaglia
Contro al nemico la sassosa mole,
E a un punto lo minaccia e l’abbarbaglia,
Come in nubilo ciel lampo di sole.
Diece ne schiaccia, e diece ne sbaraglia,
Percosse alterna e orribili parole.

(Be’, in quanto a orribili parole, in quella battaglia Cambronne non fu da meno.)

Veggendo poscia una distesa trave
Ch’era sostegno un tempo a largo tetto,
L’innalza come suolsi albero in nave,
E l’agita in magnanimo dispetto:
Sembra gigante; ognun lo sfugge e pave

Un gigante Napoleone? “Sembra”!

Ov’egli ha il braccio minacciante eretto.
Stridisce l’aura all’ondeggiar del legno,
cui mille non farian brandi ritegno.

La trave ei cala ove a battaglia instrutti
Venian precipitando i cavalieri,
E sopra diece, a lui presso ridutti,
Che traean minacciando armi e destrieri,
giù rovinolla, ed ammaccando a tutti
Le fronti, e la cervice erta a’ destrier,
Dovunque lutto, orror, minaccia sparse,
E quasi nume ai fuggitivi apparse.

Napoleone sale poi su una fortificazione. Sale? I comuni mortali “salgono”; Napoleone invece, come Superman, trasvola!

A sommo il gran campione ivi trasvola
Impetüosamente, e urta e fa punta,
[…]
A mille fende il sen, fende la gola,
E schiaccia gli egri, e sui caduti monta..

[…]

Ma in due si spezza la sua trave,

(Anche quella! Accipicchia, che sfortuna!)

ond’ei
Da sé lunge con man forte la slancia,
E fa larga schiacciata, e pesta a sei
L’erette spalle, e a due rompe la guancia.

Ma il vile nemico lo fa saltare in aria con una carica esplosiva, insieme a un pezzo di muro: finale col botto!

Sollevato nell’aere dal fuoco
Sopra un largo sfasciume egli s’innalza,
Né in cima a quel mal fermo aereo loco
Pallido fassi, e immoto egli è qual balza.
Fra l’etere che tuona arsiccio e roco,
Tra la fiamma che lui cinge e rincalza,
tal ei si sta come ai Titani inante
nelle nubi di Flegra arse il Tonante.

E quando il masso ricade, che ne è di Napoleone? Tranquilli: atterra a piè fermo, senza farsi neanche un graffio (ne dubitavate?).

Un effetto degno dei cartoni animati di Wile E. Coyote e Beep Beep. E un Napoleone degno emulo dell’Orlando furioso: ci si domanda come mai, dopo simili prodezze, abbia perso la battaglia. Ma, nelle esagerazioni, Bellini era in buona compagnia: prendete, miei diletti, l’atletico Napoleone come Marte pacificatore (Antonio Canova, 1803-1806) e il turbinoso ed eroico Napoleone che attraversa le Alpi (Jacques-Louis David, 1801 e segg.; 5 versioni), e confrontateli con il molto più realistico L’imperatore Napoleone nel suo studio alle Tuileries (sempre di Jacques-Louis David, 1812), ritratto in versione quasi casalinga e con un’incipiente pancetta.

Il Triete Anglico non è la sola opera in cui Bellini utilizza la sua cultura letteraria polverosa e antiquata per trattare avvenimenti contemporanei. Molti anni dopo il Nostro infatti pubblicherà L’inferno della tirannide (1865), un ricalco, in chiave risorgimentale e antiaustriaca, dell’Inferno di Dante. Se nell’Inferno Virgilio guida Dante nel suo viaggio nell’Oltretomba, nell’Inferno della Tirannide è Dante stesso a guidare il Lombardo (Bellini stesso) nel suo pellegrinaggio fra gli orrori della dominazione austriaca.
Ciò che rende il poema stupefacente è il fatto che Bellini mantiene non solo le rime dantesche, ma addirittura la parola finale di ogni verso.
 Rispondere per le rime” – cioè scrivere una poesia usando le stesse rime di una esistente – era una pratica ricorrente fra i poeti, già nel Medioevo; per esempio, al sonetto di Dante A ciascun’alma presa e gentil core (Vita Nova III 10-12), Guido Cavalcanti rispose con Vedeste, al mio parere, onne valore (Rime). Tecnicamente questa forma poetica si chiama “rima obbligata”.
L’idea di andare oltre la semplice rima, coinvolgendo per intero l’ultima parola di ogni verso, ha un’origine francese e si chiama bouts-rimés (letteralmente: estremità rimate). Si racconta che tale Dulot, poeta minore francese del XVII secolo, in un giorno del 1648 si lamentava che gli avevano rubato trecento sonetti. A chi manifestava sorpresa per la sua prolificità poetica, Dulot rispose che si trattava di sonetti in bianco: aveva scritto solo le parole finali dei versi, in rima. L’idea fu giudicata divertente e si trasformò in un gioco di società. (Aneddoto riportato in Menagiana, raccolta di pensieri e battute di spirito di Gilles Ménage, a cura di Antoine Galland, 1693.)

A parte la difficoltà, ovvia, di costruire una nuova storia con l’obbligo di usare le vecchie parole-rima, cosa fare dei luoghi e dei personaggi danteschi, posti in fine di verso? Bellini, quando può, li sostituisce con omonimi. Così l’oscuro Sassolo Mascheroni, contemporaneo di Dante, diventa il celebre Lorenzo Mascheroni (Bergamo, 1750 – Parigi, 1800), matematico e letterato italiano.
Ma nel Canto V, che leggete all’inizio di questo post, che fare di Dido (Didone)? Bellini la utilizza come termine di paragone: cotali uscir de la schiera ov’è Dido... diventa: Vo, guato; e non fu mai sì affiso in Dido Sicheo [marito di Didone, ucciso da Pigmalione].
Ingegnosa è anche la riscrittura del verso 117, dove l’aggettivo dantesco pio si trasforma in un nome proprio, facendo riferimento a Pio IX.

E come regolarsi col famoso e misterioso verso Pape Satàn, pape Satàn aleppe? Bellini se la cava a buon mercato, evitando sia di cambiarlo che di spiegarlo:

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe»,
Urlò Radetzky con la voce chioccia,
Né degli arcani accenti il senso ei seppe.

Come dire che si trattava di qualcosa di ancora più astruso della lingua dei crucchi.

Che ne è del celeberrimo Canto V? La vicenda commovente dell’amore fra Paolo e Francesca diventa una storia di stupro, violenza, tortura.

Confrontiamo i versi di Dante:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

con quelli di Bellini:

Allora quei con barbaro diletto
Noi come vedi d’una fune strinse,
E qui ne trascinò pien di sospetto, – 

Com’ella ha detto, ecco ambedue sospinse
Uno scherano, tenebrato in viso,
Entro un  gran rogo ch’ogni incendio vinse,

E là Radetzky con beffardo riso,
Sparso di ragia l’uno e l’altro amante
Vedea stridere ed arder non diviso.

Allor l’Alighier tutto tremante,
Tal pena, ah mia Commedia non la scrisse,
Dice piangendo, e più non dice avante:

La poesia dell’originale scompare, cedendo il posto all’indignazione e all’invettiva: è uno dei luoghi in cui appare più evidente che Dall’anello dantesco il Bellini ha tolto la gemma per incastonarvi un culo di bottiglia. (Mario Praz)
Non manca tuttavia una finezza che io, amante dei giochi di parole, non posso non apprezzare: le allitterazioni del celeberrimo verso dantesco Amor, ch’a nullo amato amar perdona trovano un equivalente in quelle del Bellini: Un tedesco predon che non perdona.
Però, dopo aver combinato – letteralmente – un macello, alla fine del canto un sussulto di pudore Bellini lo prova, e non trova perciò il coraggio di modificare l’ultimo verso: lo cita tale e quale, fra virgolette:

«E caddi come corpo morto cade.»

L’Inferno della tirannide non merita certo un posto nella storia della grande letteratura; ma – come osserva Mario Praz – un posticino fra i cimeli risorgimentali, fra le buone cose di pessimo gusto dei salotti di qualche nonna Speranza, quello sì. E senz’altro – aggiungo io – un posto di rilievo nello scaffale dei giochi di parole.


APPENDICE

Bernardo Bellini, L’Inferno della tirannide, V, 70-142
PARAFRASI

Quando io vi ebbi udito più di un nome, vidi diversi cavalieri ammanettati, cosicché mi volsi smarrito al Poeta. Poi ricominciai: “I miei occhi si rivolgono malvolentieri ai dannati a torto. Portami via da qui: per te sarà cosa facile!” ed egli: “I tuoi desideri saranno esauditi in buona parte, poiché la tua pietà me lo chiede, ma prima i tuoi sguardi si rivolgeranno ad altri tormenti. Allontanati dal malvagio giudice, in modo che egli non veda, e osserva altre anime angosciate a cui il dolore troppo grande impedisce di piangere. Tu prima che siano chiamate al martirio invitale presso di te: le vedrai giungere al tuo desiderio come a un pietoso rifugio. “Vado, guardo: e Sicheo non guardò mai così fissamente Didone, come in quel luogo maligno un giovane guarda la sua sposa, e alza un grido. Benché mesto, aveva un’espressione benevola, e nel chiarore che sopraffaceva l’aria scura mostrava il petto insanguinato da una grande piaga. Stretto alla donna esclamava: “O re dell’universo, accoglici nella tua pace, sottraici ai denti di un drago perverso!” Allora cominciai a dire: “Per favore, anime affannate, (io vi prego) ditemi per intero il dolore che in parte ora è inespresso!” E la donna rispose: “Io nacqui all’estremità superiore del lago di Como, dove l’Adda scende col vivo argento dei suoi affluenti. L’amore che infiamma le anime nobili strinse a costui la mia casta persona, che ora è stata contaminata, e il modo mi offende ancora. Un predone tedesco che non rispetta il pudore, ma si fa rabbioso e forte nella libidine che non lo lascia mai, entrò nel mio letto, mi minacciò di morte, per cui svenni… E mi lasciò così macchiata sulle porte! [?] A vedere quelle maledette offese giunse il mio sposo, e, trascinato in un luogo più in basso [gettato a terra?], quel fellone si guadagnò più di quello che immaginava. Dopo averlo ucciso gridava forte: “Oh povero me! O orribile desiderio di vendetta, rendi un lampo il mio cuore, un lampo il passo”. Voglio placare la mia brama sul crudele comandante, autore di stupri, responsabile di martìri; e io so che Pio IX sta dalla sua parte!” Mentre egli mescolava ai lamenti e ai sospiri il nome di Pio IX non più sinonimo d’amore, né fonte di santi desideri, ad accrescere per sé l’infamia, per noi il dolore, sopravvenne il Bolza [Luigi Bolza (Loveno, 1786 – Loveno, 1874), funzionario della polizia austriaca impiegato in compiti di repressione politica], e fu felice della sua preda, lui maestro ed esperto di opere malvagie. E a costui, fonte del mio amore, cacciò un pugnale nel petto: ma la passione più forte non muore in lui, perché grida Viva l’Italia! Allora quello, con selvaggio piacere ci strinse come vedi con una fune, e ci trascinò qui pieno di sospetti.” Appena ella ebbe finito di parlare, ecco che uno sgherro, col viso scuro, spinse entrambi dentro un rogo più grande di ogni altro incendio, e là Radetzky con una risata beffarda, dopo aver cosparso d’acqua ragia entrambi gli amanti, li guardava bruciare insieme. Allora l’Alighieri tutto tremante dice piangendo: “Ah, una pena così la mia Commedia non la narrò” e non dice altro: ed io non piansi quando egli pianse e parlò, perché mi vinsero la rabbia e la pietà; mi sentii gelare come se stessi per morire, “E caddi come corpo morto cade.”


LETTURE CONSIGLIATE

Bernardo Bellini, L’Inferno della tirannide conseguitato dalla guerra per l’indipendenza italiana nel 1848, Cantica, Torino, Tipografia Eredi Botta, 1865.
L’Inferno della tirannide è stato stampato in sole 1000 copie, ed è introvabile. Potete però scaricare la versione digitalizzata qui.

La maggior parte delle informazioni relative a Bernardo Bellini e la sua opera sono state ricavate da:
Mario Praz, Bernardo Bellini e un curioso poema sul Risorgimento, in Bellezza e bizzarria, Milano, Il Saggiatore, 1960). Attenzione: non confondetelo con Mario Praz, Bellezza e bizzarria, saggi scelti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, collana I Meridiani, 2002, che non contiene il saggio su Bellini.


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domenica 6 maggio 2018

ARRIGO BOITO, ovvero PIZZICA, STUZZICA, PUNGI, SPILLUZZICA – seconda parte




ARRIGO BOITO
(Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918)


Non era cominciato bene il rapporto fra Arrigo Boito e Giuseppe Verdi. Il 22 novembre 1863
Boito aveva pubblicato nella rivista Museo di Famiglia l’Ode saffica col bicchiere alla mano:

Alla salute dell’Arte italiana!
Perché scappi fuori un momentino
Dalla cerchia del vecchio e del cretino,
Giovane e sana.

[...]

Forse già nacque chi sovra l’altare
Rizzerà l’arte, verecondo e puro,
su quell’altare bruttato come un muro
Di lupanare.

[...]

Verdi, convinto che Boito si riferisse a lui (se a torto o a ragione non sappiamo con certezza: Boito lo negò sempre), non la prese bene. Ci vollero tutta la pazienza e la diplomazia dell’editore Ricordi per ripristinare i rapporti fra i due: uno sforzo di cui lo dobbiamo ringraziare, perché dalla loro collaborazione nacquero due capolavori, la tragedia di Otello (1887) e la commedia di Falstaff (1893), che rinnovarono il melodramma italiano superando la tradizione dei pezzi chiusi (cioè delle arie, intervallate da recitativi). E ne nacque un’amicizia duratura, un rapporto quasi da padre a figlio fra Verdi (che era del 1813) e Boito (che era del 1842), una stima da parte di Verdi e una devozione da parte di Boito.

I due non potevano essere più diversi.
Boito era meno dotato musicalmente di Verdi: Manca di spontaneità e gli manca il motivo. (Lettera di G. Verdi a Opprandino Arrivabene, citato da E. Buroni nella sua tesi di dottorato Arrigo Boito librettista.). A questo si aggiungevano un’attitudine critica e un perfezionismo paralizzanti, che lo spingevano a disfare e rifare continuamente il proprio lavoro, alla ricerca del capolavoro musicale. Scrisse due sole opere: il Mefistofele, che continuò per anni a ritoccare (non solo dopo l’insuccesso iniziale del 1868, ma anche dopo il trionfo del 1875) e il Nerone, che, continuamente annunciato, rimase incompiuto. Così scriveva a Verdi: Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito, fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte, io nel mondo delle allucinazioni. (Lettera di A. Boito a G. Verdi, 19 aprile 1884.)

Di tutt’altra pasta era Verdi, che aveva assorbito dagli avi la mentalità contadina concreta e pragmatica. A Corrado Ricci che gli spiegava che [...] il Nerone non si compiva perché il Boito aveva il brutto difetto d’essere troppo esigente sulle cose proprie, cioè autocritico, Verdi rispondeva: Non bisogna esagerare nella smania di perfezione, perché è il vero modo di non compiere nulla. La natura, la sincerità di un maestro si mostra meglio mantenendo intatto ciò che è uscito dal proprio genio, dalla propria ispirazione, che ritornare sempre sui propri passi. Anzi, dall’alternativa di cose un po’ basse con altre elevate, queste s’avvantaggiano di più nel contrasto. Talora è da credere che alcuni poeti abbino calcolato su simili effetti. (Corrado Ricci nel Giornale d’Italia del 2 giugno 1918, riportato in Raffaello De Rensis, Arrigo Boito – Aneddoti e bizzarrie poetiche musicali, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1942.)

Il sodalizio tra i due fu per Boito liberatorio, per due motivi:
1 – Il confronto con un collega ha una funzione – per usare una metafora biologica – enzimatica: catalizza la reazione creativa. Aiuta ad evitare i vicoli ciechi, a identificare le strade promettenti, ad aprirne di nuove. Non solo: velocizza il lavoro e ne migliora la qualità.
Succede, quando si lavora da soli (e soprattutto se si è di temperamento problematico), di arenarsi per un’inezia o per un dubbio; discuterne con un collega o un amico è la cosa migliore per schiarirsi le idee e per sbloccarsi velocemente: vi dirà di non perder tempo su questo, di focalizzarvi su quello, vi darà degli spunti, vi conforterà su una soluzione... o vi dirà che fa schifo (ma non dovete offendervi!). Sono conversazioni provvidenziali, credetemi miei diletti, ve lo dico da architetto, per esperienza personale, perché i difetti di Boito li ho anch’io. Ma ricordatevi: è fondamentale non essere permalosi.
2 – E poi, diciamocelo francamente: la responsabilità delle scelte finali e definitive ricadeva sempre su Verdi.

Verdi d’altro canto trovava in Boito il librettista ideale, per più motivi:
1 – Boito era, oltre che un buon poeta, un versificatore dalle notevolissime capacità tecniche e dal lessico amplissimo: nei suoi scritti troviamo dantismi, lasciti della tradizione petrarchesca e cinquecentesca, termini colti, ma anche gergali, regionali, colloquiali.
2 – Oltre che letterato, Boito era anche musicista: dunque conosceva profondamente, a livello professionale e per esperienza diretta, il melodramma in tutti e due i suoi aspetti, letterario e musicale.
3 – Si aggiunga poi, per quanto riguarda il Falstaff, la propensione di Boito per il divertimento, le bizzarie e i funambolismi verbali. Propensione che emerge prepotentemente nella corrispondenza privata, più libera e informale, in particolare quella con l’amico Giuseppe Giacosa. Vediamone alcuni esempi.

Due sole rime:

Alla Distintissima Signorina
~ Paolina Giacosa ~
esimia dilettante di fotografia
Laude
Quel ritratto m’assomiglia
Perché il sole è Verità.
Anche quando un granchio piglia
Il fotografo nol sa,
Perché tardi le sue ciglia
Scorgon quel ch’ei fece là.
Ma una figlia di famiglia
Sempre sa quello che fa
Specie se tenuta in briglia
Dalla mamma e dal papà.

(A Paola Giacosa, senza data.)

Omografi, ma con accento diverso:

Mentre ti scrivo al tavolo
incretinito e solo,
al par d’Elia l’arcavolo (1)
sovr’ardent’arca volo.

Per te qual da un trapezio
balzo sul suol natio
del direttor dell’Ezio, (2)
con cuor di padre e zio.

Volo alla Duse: elessero
tuoi versi ad essa impero.
Sparir quei che tessero (3)
tirate alla Tessèro. (4)

Ma il pianto al par della fistola (5)
sulla mia guancia cola!
Vorrei con questa pistola (6)
partir come pistola.

Ma invan! Pure a correggere
le sorti mie severe
le tue mi dovrai leggere
commedie alte e leggere..

(A Giuseppe Giacosa, 19 ottobre1883.)

(1) Elia = Profeta biblico.
(2) Direttor dell’Ezio = Metastasio, nato a Roma, autore dell’Ezio?
(3) Tessero = Tesserono.
(4) Tessèro = L’attrice Adelaide Tessero.
(5) Fistola = Antico strumento musicale a fiato.
(6) Pistola (leggi “pìstola”) = epistola.

Spostamento scherzoso degli accenti, mutando le parole da piane a sdrucciole e viceversa:

O Pin. (1)
Verga sclamò: Lerai! (2)
Gualdo rispose: Mai!
Io sol, perché te àdulo,
La mia canzon già mòdulo:
Andrem sul San Theòdulo, (3)
Ci andrem di grado in gràdulo,
E i passi, messi in fila,
Dei nostri audaci piè
Faran N. 3333!

Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Io sol, perché te adùlo,
La mia canzon già modùlo:
Andrem sul San Theodùlo,
A piedi e senza mulo,
Con fosco binocùlo
Garantirem l’ocùlo.
E i passi messi in fila,
Dei nostri eroici piè
Faran N. 3333!

Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Con foga aculeata
Dai sorsi del cognac
Affronterem sul ghiaccio
S’anco faccia un crepaccio
Sotto il tuo peso crac.
E i passi messi in fila,
Dei nostri eccelsi piè
Faran N. 3333!

Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Facciamo i patti tondi
per ripartire i pondi (4)
Sul vitreo pendìo
Varcando in su e in giù
Prima passerai tu
E poi passerò io.
E i passi messi in fila,
Dei nostri alati piè
Faran N. 3333!

(A Giuseppe Giacosa, 23 giugno 1885.)

(1) Pin = Giuseppe Giacosa.
(2) Lerai = Espressione negativa milanese da “ciondolerai”.
(3) Passo del San Teodulo, 3333 metri s.l.m.
(4) Pondi = Pesi.

Rime con raddoppio di consonante:

[...]
. . . . . .
Ed ora che hai fatto
Lieto il mio fato,
La man mi gratto
E ti son grato
Color che sanno
Ti voglion sano.
A te il nuov’anno
Porti un nuov’ano.
––––
Schiva la carta Bristola (1)
Quella non fa per te
Guarisci la tua fistola
e vieni a San Josè. (2)

(A Giuseppe Giacosa, febbraio 1889.)

(1) Carta bristola = cartoncino bristol.
(2) San Josè = 19 marzo, S. Giuseppe.

Assonanze alla maniera di Leporeo (non sapete chi è? cliccate qui), del tipo -ate, -ete, -ite, -ute (e, a volte, con la consonante precedente identica (come -mate, -mete, -mite, -mute):

Caro Pin. Voi fabbricate
sulle vostre alture chete
prose e versi e v’arricchite
rimbottandovi la cute.
E Melpomene, che amate, (1)
già v’innalza nuove mète
sovra un vol or fiero or mite.
– Io vi grido: Picamute”. (2)
Picamute! ed armo l’arco
Per gettarvi in braccio all’orco,
perché sempre un uomo parco
porta invidia a un uomo porco.
E il mio verso ver voi striscia
mentre un suon d’alt’acque scroscia;
E quel suon, m’accorsi poscia,
è d’uom che qui accanto piscia.
Già sperai la “Resa” rasa (3)
e squittivo dalle risa,
quando, a Roma, ecco la “resa”
rifiorir come una rosa;
la signora Amelia Prasa
tal notizia aveva presa
dal “Corrier”; io con sorprisa
maledii la vostra prosa.
Se voi foste a Buda-Peste,
scrivereste per le poste
più sovente. Io mangio paste.
Tutto està sto a Villa d’Este. (4)
Ristorar vi vuol quest’oste
Come foste Illica o D’Aste. (5)
Via! Scendete l’erta erma,
qui portate ogni vostr’arma,
lancia, elmetto e spada e parma; (6)
poscia andrem più presto a Parma,
Ombre, aure, onde e quante elise (7)
voci quel che Laura eluse (8)
qui v’attendon; “e i me dise
che qua vol vegner la Duse”. (9)
Puro è il ciel; trilla la rana;
sovra un suol di fine arena
gentilmente il fonte orina;
vola l’Euro o vien da Arona;
suoi tepori agosto emana;
ride al suol la roccia amena
che nel sen chiude la mina.
“Vien, se no te digo mona. (10)

(A Giuseppe Giacosa, post marzo 1886?)

(1) Melpomene è la Musa del canto.
(2) ?
(3) allude alla Resa a discrezione, commedia di G. Giacosa, 1886.
(4) Està = estate.
(5) Luigi Illica e Ippolito Tito D’Aste, drammaturghi.
(6) Parma = piccolo scudo.
(7) Citazione petrarchesca; elise = elisie, dei Campi Elisi, luogo dell’aldilà destinato alle anime elette, secondo gli antichi Greci.
(8) Francesco Petrarca.
(9) E mi dicono che qua vuol venir la Duse.
(10) Se no (non, nella trascrizione consultata) te digo mona = Vieni, sennò di dico minchione]

Ancora assonanze, ancora più difficili: sdrucciole (-icciola, -ucciola, -occiola), tutte con la stessa terminazione (-ciola).

Mi mandi la tua bric
Di canzoncina pic
tessuta in rime sdruc (1)
Io la tua carta spic
Di vil monata, arric (2)                 ciola
E alla mia lampa abbruc

– Un falso argento sgoc
La coda della chioc

(A Giuseppe Giacosa, 1885.)

(1) Rime, nella trascrizione originale.
(2) Monata = stupidaggine, in veneto.

Latinismi maccheronici, in cui si alternano calchi scherzosi del nominativo e del genitivo (-ago, -aginis) della terza declinazione:

Forse una vaga imagine
È questa tua lombago,
Ovvero una lombagine
Della tua vaga imago.
Prendi penna e cartagine,
ovvero sia Cartago,
E scrivi illustri pagine
Che il mondo faccian pago,
Da Londra a Crescenzagine,
Ovvero Crescenzago.

(A Giuseppe Giacosa, senza data.)

Allitterazioni a gogò:

Tu andrai d’Andrate sul verde colle, (1)
Lesta l’estate trascorrerai,
Trarrà tra rari nappi il suon folle
d’ilari lari la lira là.
Lì ti rimiri nell’onda viva,
Lì ti ritiri fra l’ombre e i fior,
Lì sull’arborica verzura estiva
Il carco corica, carico cor!

(A Giuseppe Giacosa, marzo 1888?)

(1) Boito si rivolge a se stesso.

Uso compulsivo delle abbreviazioni, autentiche o inventate:

Caro Prof. Avv. Cav. e Com.
Oggi, qui, ore 6. pom.
Al Term. Cent. 40 gr.!
Andrò allo Stab. Idr. di Gr.
Verso il 26 del corr.
Tu rispondi al prossimo corr.
Caro Com. Avv. Cav. e Prof.
Dammi un clis. un lav. un sbrof, (1)
Caro Prof. Com. Avv. e Cav.
Dammi un sbroff, un clis. un lav.
Tal ch’io possa dire: brrrr!
Con i miei quaranta gr.
Caro Prof. cura il tuo pat. (2)
Colla moll. inzupp. nel lat.
Se nol farai tu dirai: Crist!
Dirai Crist! al zac del bist. (3)
Cura il pat. con un ammoll.
Latte e malva 10 gram.
E sarai guarito indubb.
Credi al tuo dev. aff. ex-coll.
Della Comm. Art. Mus. e Dram.
Del R. Min. dell’Istr. Pubb.

(A Giuseppe Giacosa, luglio 1884.)

(1) Sbroff = spruzzo, in lombardo.
(2) Pat. = paziente?
(3) Zac del bist. = taglio del bisturi.

E, per finire, una poesia criptica, che acquista senso trascrivendo i numeri del terzo, quarto, settimo e ottavo verso in numeri romani.

Pinotto, da quel dì quel che ti lasciai, (1)
la penna tua nove nove non dièci. (2)
Siccome un cinquecento cinque e dieci (3)
della cinquanta cinque e dieci ai rai (4)
inforcasti l’arcion senza dir: Ahi! – –
Io, nel vederti con audacia tanta
sul mille cinque e cinquanta, pensai (5)
tremando al tuo cento cinque e cinquanta. (6)

(A Giuseppe Giacosa, senza data.)

(1) Pinotto = Giuseppe Giacosa.
(2) Nove nove non dièci = non ci diede nuove notizie.
(3) Cinquecento cinque e dieci = DVX (in numeri romani).
(4) Cinquanta cinque e dieci = LVX (in numeri romani).
(5) Mille cinque e cinquanta = MVL (in numeri romani).
(6) Cento cinque e cinquanta = CVL (in numeri romani).

La prima del Falstaff si tenne il 9 febbraio 1893 alla Scala di Milano. Verdi aveva 79 anni!
Con l’Otello (1887, sempre su libretto di Boito) e col Falstaff Verdi rompeva un silenzio operistico che durava dal 1871 (Aida), dimostrando non solo che, nonostante l’età, la sua creatività non si era affievolita, ma anche che era capace di rinnovarsi percorrendo strade nuove. E, sempre col Falstaff, dimostrava inoltre di saper trattare il registro comico, che non era considerato nelle sue corde: l’unica sua opera comica precedente – la giovanile Un giorno di regno, 1840 – era stata un insuccesso.
Un po’ di merito, in tutto questo, va attribuito anche a Boito, che ne dite?


LETTURE CONSIGLIATE

Opere di Arrigo Boito
Falstaff
Libretto: è facilmente reperibile su Internet. La versione dall’impaginazione più accurata si trova qui.
Registrazione audiovisiva: una versione dell’opera con sottotitoli si trova qui (la scena riportata in questo post comincia a 1h 57’ 33’’ ).
Re Orso. Fiaba. Non potete, miei diletti, fare a meno di leggere questo poemetto polimetro (= con versi di varia misura): un divertissement bizzarro e macabro, una matta cosa (A. B.) dove Boito dispiega tutta la sua abilità di versificatore. Il poemetto ha avuto varie edizioni, con varianti (1865, 1873, 1877, 1902). Trovate l'edizione del 1902 qui.

Su Boito poeta e musicista
Riccardo Viagrande, Arrigo Boito, “Un caduto chèrubo”, poeta e musicista, Palermo, l’Epos, 2008.

Su Boito poeta e librettista
Edoardo Buroni, Arrigo Boito librettista, tra poesia e musica, Firenze, Franco Cesati Editore, 2013. È la rielaborazione della tesi di Dottorato (Edoardo Buroni, Arrigo Boito librettista - Un’indagine linguistica tra testo poetico e testo musicale, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Filologia Moderna, A. A. 2008/2009), che potete scaricare da qui.

Sul rapporto fra Boito e Verdi
Riccardo Viagrande, Verdi e Boito “All’arte dell’avvenire”, Monza, Casa Musicale Eco, 2013)

L’epistolario
L’epistolario di Arrigo Boito è scaricabile da qui (prima parte) e da qui (seconda parte).

LA PRIMA PARTE DI QUESTO POST SI TROVA QUI.


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