domenica 30 dicembre 2012

FARE UNA FILASTROCCA – 4


PICCOLA GUIDA PRAGMATICA DELLA FANTASIA
ovvero
COME SONO NATE LE MIE FILASTROCCHE






FARE VARIAZIONI SU UN PROVERBIO O UN MODO DI DIRE – 2

TANTO VA LA GOTTA... (IL LORD AL NORD)

 

Tanto va la gatta al lardo / che ci lascia lo zampino... E se invece di gatta scriviamo gotta? Il lardo diventa lordo... Ma a me è venuta in mente un’altra cosa: la gotta del nonno del Piccolo Lord (Little Lord Fauntleroy) Frances Hodgson Burnett, che avevo letto da bambino.

gatta → gotta

ma con la gotta
zampino → zampone
lardo → lord
inoltre l’ambientazione ottocentesca suggerisce anche:
gotta → ghetta

E allora è inevitabile:


Tanto va la gotta al lord
che gli lascia lo zampone;
se gli lascia lo zampone
non va più la ghetta al lord.

In seguito mi è capitato di leggere una battuta di Anacleto Bendazzi (1883 – 1982; il più grande giocoliere della parola che l’Italia abbia avuto): Come un lord nei fjord del nord. E così ho postillato:


Tanto va quel lord al nord
che vi incontra fior di fjord.

 

Tanto va la gotta... (Il lord al nord)
fa parte della raccolta 
GIRO GIRO QUADRO... TUTTO VA A SOQQUADRO! 
Sarnus editore, 2012.

 

Se l’argomento ti interessa, puoi leggere anche:

FARE UNA FILASTROCCA – 1 
FARE UNA FILASTROCCA – 2 
FARE UNA FILASTROCCA – 3 
FARE UNA FILASTROCCA – 5 
FARE UNA FILASTROCCA – 6 
FARE UNA FILASTROCCA – 7
FARE UNA FILASTROCCA – 8 

FARE UNA FILASTROCCA – 9
FARE UNA FILASTROCCA – 10
FARE UNA FILASTROCCA – 11
FARE UNA FILASTROCCA – 12
FARE UNA FILASTROCCA – 13

 
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domenica 16 dicembre 2012

FARE UNA FILASTROCCA – 3


PICCOLA GUIDA PRAGMATICA DELLA FANTASIA
ovvero
COME SONO NATE LE MIE FILASTROCCHE





METTERE IN FILASTROCCA UN PROVERBIO O UN MODO DI DIRE
TANTO VA LA GATTA...




Un proverbio o un modo di dire, opportunamente adattati metricamente, possono essere utilizzati come materiale di base per costruire una filastrocca. E qualche volta capita di trovare il materiale già bell’e pronto: avete mai notato che Tanto va la gatta al lardo / che ci lascia lo zampino sono due ottonari? Ci ho messo un po’ anch’io ad accorgermene. Allora basta aggiungere due versi che rimino in –ardo e –ino, e il gioco è fatto:

Camminando lì vicino

col suo passo di leopardo
tanto va la gatta al lardo
che ci lascia lo zampino.

Ma lardo richiama troppo scopertamente ladro (come anche gatta evoca gratta) per non approfittarne: 

Nel locale buio ed adro,(1)
col suo passo di leopardo,
tanto va la gatta al lardo
che lo gratta come un ladro.

E lo zampino fa apparire, accanto al lardo, uno zampone: 

Se la gatta è in piena azione
col suo passo di leopardo
tanto fa che gratta il lardo
e non lascia lo zampone.

1 – Adro (o, più comunemente, atro) = nero.


Le variazioni su Tanto va la gatta...
fanno parte della raccolta

GIRO GIRO QUADRO... TUTTO VA A SOQQUADRO! 
Sarnus editore, 2012.


Se l’argomento ti interessa, puoi leggere anche:

FARE UNA FILASTROCCA – 1 
FARE UNA FILASTROCCA – 2 
FARE UNA FILASTROCCA – 4 
FARE UNA FILASTROCCA – 5
FARE UNA FILASTROCCA – 6 
FARE UNA FILASTROCCA – 7 
FARE UNA FILASTROCCA – 8 
FARE UNA FILASTROCCA – 9 
FARE UNA FILASTROCCA – 10
FARE UNA FILASTROCCA – 11
FARE UNA FILASTROCCA – 12 
FARE UNA FILASTROCCA – 13


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giovedì 29 novembre 2012

ALESSANDRO MANZONI & CO. ovvero I PROMESSII SPOSII – 2


Di chi sono gli incipit dei Promessi sposi pubblicati nel post precedente? Ecco le soluzioni:

 

I          Alessandro Manzoni, Fermo e Lucia

II         Alessandro Manzoni, I promessi sposi, edizione 1827

III        Alessandro Manzoni, I promessi sposi, edizione 1840

IV       Carlo Cetti, Rifacimento dei Promessi sposi, 1965
V        Guido da Verona, I promessi sposi,1929
VI        Piero Chiara, I promessi sposi, 1971

E il raccontino numero VII? Beh, quello – perdonatemi, ma non ho saputo resistere – l’ho scritto io, ispirandomi a La quercia del tasso di Achille Campanile.

Ma quello che vi ho dato è un quadro tutt’altro che completo: la produzione letteraria incentrata sul romanzo di Manzoni è molto più ampia. Approfondendo la ricerca troviamo:

un testo teatrale:
I promessi sposi alla prova, di Giovanni Testori;

due opere liriche:
I promessi sposi, libretto di Antonio Ghislanzoni, musica di Errico Petrella, 1869,
I promessi sposi, libretto di Emilio Praga e altri, musica di Amilcare Ponchielli, 1869;

poemi in italiano:
I promessi sposi in poesia vernacola pratese, di Giuseppe Paolini, Baccio Bacci ed, 1923,
I promessi sposi in terza rima (poema in dodici canti), in Guida di Lecco: Itinerario dei luoghi manzoniani, Lecco, 1968;

Non basta: perché c’è chi ha preso i panni risciacquati da Manzoni nell’Arno e li ha tuffati nell’Adda, riscrivendo I promessi sposi in dialetto:

I promessi sposi, di Piero Collina, 1966, versi in dialetto lariano,
I duu moros, Nino G. Casiraghi, Milano, Accademia Internazionale della Tavola Rotonda, 1968, versi in dialetto meneghino,
I duu moros, di Alvaro Casartelli, Agielle, 1974.

Finisce qui? No, perché, se un libro ha successo, è inevitabile che se ne confezioni il seguito:

I figli di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, di Antonio Balbiani, Milano, Stabilimento tipografico dell’editore Francesco Pagnoni, 1874,
Renzo e Lucia: seguito ai promessi sposi, di M. Giovannetti, 1905.

Due seguiti? Troppa grazia Sant’Antonio! Speriamo che il ministro della Pubblica Istruzione non lo venga a sapere: a scuola, da studiare, ci basta la prima puntata!



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mercoledì 21 novembre 2012

ALESSANDRO MANZONI & CO. ovvero I PROMESSII SPOSII – 1



 

ALESSAND ROMANZONI

pardon:

ALESSANDRO MANZONI

(Milano, 1785 – ivi, 1873)

 

 

I promessii sposii?!? Eh sì, miei diletti, il plurale al quadrato ci vuole, perché de I promessi sposi c’è più di una versione. Due, tre? Di più, di più: il vostro insegnante, a scuola, non vi ha detto tutto! Volete qualche assaggio? Presto fatto (ma per sapere gli autori dovrete pazientare qualche giorno); ecco qua:

 

 

I

Quel ramo del lago di Como d’onde esce l’Adda e che giace fra due catene non interrotte di monti da settentrione a mezzogiorno, dopo aver formati varj seni e per così dire piccioli golfi d’ineguale grandezza, si viene tutto ad un tratto a ristringere; ivi il fluttuamento delle onde si cangia in un corso diretto e continuato di modo che dalla riva si può per dir così segnare il punto dove il lago divien fiume. Il ponte che in quel luogo congiunge le due rive, rende ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione: perché gli argini perpendicolari che lo fiancheggiano non lasciano venir le onde a battere sulla riva ma le avviano rapide sotto gli archi; e presso quegli argini uno può quasi sentire il doppio e diverso romore dell’acqua, la quale qui viene a rompersi in piccioli cavalloni sull’arena, e a pochi passi tagliata dalle pile di macigno scorre sotto gli archi con uno strepito per così dire fluviale.


II

Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, viene quasi a un tratto a ristringersi e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia riviera di riscontro; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lasciano l’acqua distendersi e allentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.


III

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.

 

IV

Quel ramo del Lario che, tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a un tratto si restringe e, tra un’ampia costiera a manca e un promontorio a destra, prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da un ponte che unisce le due rive lì ove termina il lago e l’Adda ricomincia, per riprendere poi nome di lago, ove esse riaprendosi, lasciano spaziare le acque in nuovi golfi e seni.


V
Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli (tali notizie noi ricaviamo da un Manoscritto del Milleseicento, nel quale è narrata la presente istoria) è un lago esclusivamente d’acqua dolce, a differenza del Mar Caspio o del Mar Morto, che son salati per pura combinazione. Il suddetto ramo, strada facendo, vien, quasi d’un tratto, a restringersi formando in luogo la città di Lecco, i cui abitanti diconsi Leccobardi; gente industriosa e di grande malizia, che, per potervi gettar sopra un ponte, costrinsero il lago a divenire un fiume.
Fra le altre anomalie che presenta questo ramo, v’è ancor quella di lasciarsi circondare, come già dicemmo, da due catene non interrotte di monti, le quali, se si fossero avvicinate ancor più, avrebber costretto il lago di Lecco a trasferirsi altrove; per esempio nel Tavoliere delle Puglie, dove i laghi sono oggetti da collezionista, oppure nelle immediate vicinanze di Milano, dove gli edili, che non fanno complimenti, si sarebbero affrettati a ricoprirlo.


VI
Nel tardo pomeriggio di una giornata di novembre del 1628, Don Abbondio, un pretonzolo sui quarant’anni, tondo e ben pasciuto, cammina per una stradicciola di campagna sui colli che guardano il lago di Como, alle spalle del paese di Lecco.


VII

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…

– Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? In vero, non è cosa da presentare ai lettori d’oggigiorno. –
Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi sconosciuta, perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. – Perché non si potrebbe, pensai, rifarne la dicitura? – Non essendosi presentata alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato.


IL RAMO DEL LAGO DI COMO

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto dove il lago cessa, e l’Adda ricomincia. Dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane.
E’ da una di queste stradicciole che comincia il nostro racconto: dopo una voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente.
Questa seconda diramazione era detta il ramo del torrente o, poiché il torrente si gettava nel ramo del lago di Como, il ramo del ramo del lago di Como.
A un certo punto del percorso il sentiero fiancheggiava una parete scoscesa: su quella parete era cresciuto, chissà come, un albero. Ma, data la particolare situazione, aveva sviluppato la chioma quasi tutta da un lato, con un ramo, in particolare, che era cresciuto molto più degli altri e sporgeva obliquamente sopra il sentiero. Era, per tutti, il ramo del ramo del ramo del lago di Como.
Sopra quella parete scoscesa, molti secoli addietro, era stato costruito un eremo. Si finì perciò col chiamarlo l’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como.
L’eremo era ormai abbandonato da tempo immemorabile, quando un barcaiolo, che si era innamorato del posto, decise di riadattarlo e di farne la sua abitazione. Da quel giorno il barcaiolo, che si chiamava Remo, divenne per tutti il1 Remo2 dell’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como.
Un brutto giorno il nostro ramo venne spezzato da un fulmine; il barcaiolo lo raccolse e ne ricavò un remo: era nato il remo del Remo dell’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como.
Giunto alla vecchiaia, il barcaiolo, che ormai aveva smesso di vogare, utilizzò il remo per rifare le gambe a un mobile che teneva in camera da letto, che divenne così il comò del remo del Remo dell’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como.
La moglie del barcaiolo amava passare il tempo a ricamare e teneva nel comò, assieme alle stoffe e ai rocchetti, il suo ago preferito: l’ago del comò del remo del Remo dell’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como.
E, poiché a causa dell’ago del comò del remo del Remo dell’eremo del ramo del ramo del ramo del lago di Como siamo ormai allo stremo dell’ago-
nia (e del coma), chiudiamo qui la nostra storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.


NOTE
1 – I lombardi hanno l’abitudine di usare l’articolo determinativo anche davanti ai nomi propri.
2 – Nomen omen, dicevano i latini: fare il barcaiolo chiamandosi Remo è la cosa più logica, come per Guido fare il tassista, per Assunta trovare un lavoro fisso, o per Bruno essere un po’ orso.



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mercoledì 7 novembre 2012

FARE UNA FILASTROCCA – 2


PICCOLA GUIDA PRAGMATICA DELLA FANTASIA
ovvero
COME SONO NATE LE MIE FILASTROCCHE






FARE VARIAZIONI SU UNA FILASTROCCA NOTA – 2
AMBARABÀ CICCÌ COCCÒ - 2

 


Ambarabà ciccì coccò, / tre civette sul comò. Avete notato che comò fa rima con popò? Non basta: a questo punto prendiamo in considerazione ciccì: fa rima con pipì! Meraviglioso, tutto quadra! Diventa inevitabile scrivere:

Ambarabà ciccì coccò,
tre civette sul comò
hanno fatto la popò.

Ambarabà coccò ciccì,
tre civette ancora lì
fanno pure la pipì.

Ma bisogna fare le cose con equità e giustizia: cacca, pipì... e scorregge niente? Aspetta: perché non utilizzarle per un finale “scoppiettante”?

Finale
Tre civette chi le regge,
se poi fanno le scorregge?

Ma io sono uno spirito matematico, perciò dopo
Ambarabà ciccì coccò

e
Ambarabà coccò ciccì
non potevo non esplorare le potenzialità di
Ciccì coccò, ambarabà.

Ecco allora un finale alternativo:

Ciccì coccò, ambarabà,
si alza in volo ognuna e va
scorreggiando qua e là. 


Ambarabà ciccì coccò
fa parte della raccolta
HA CHIAMATO LA CACCHINA... PERCHÉ ARRIVA DOMATTINA!
Sarnus editore, 2012.



Se l’argomento ti interessa, puoi leggere anche:

FARE UNA FILASTROCCA – 1
FARE UNA FILASTROCCA – 3 

FARE UNA FILASTROCCA – 4 
FARE UNA FILASTROCCA – 5 
FARE UNA FILASTROCCA – 6 
FARE UNA FILASTROCCA – 7 
FARE UNA FILASTROCCA – 8 
FARE UNA FILASTROCCA – 9 
FARE UNA FILASTROCCA – 10
FARE UNA FILASTROCCA – 11
FARE UNA FILASTROCCA – 12
FARE UNA FILASTROCCA – 13

 
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mercoledì 24 ottobre 2012

FARE UNA FILASTROCCA – 1

PICCOLA GUIDA PRAGMATICA DELLA FANTASIA
ovvero
COME SONO NATE LE MIE FILASTROCCHE






FARE VARIAZIONI SU UNA FILASTROCCA NOTA – 1
AMBARABÀ CICCÌ COCCÒ - 1



A un architetto capita di costruire case nuove, ma anche di ristrutturare case vecchie; lo stesso succede a un filastrocchiere: può creare filastrocche inedite, ma può anche rielaborare filastrocche esistenti. Partire da materiale preesistente, da guardare con occhi nuovi e sotto una prospettiva inedita, può essere un buon innesco per la creatività.
 

Prendiamo per esempio la notissima filastrocca nonsense:
 

Ambarabà ciccì coccò,
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò, / Il dottore si arrabbiò,
ambarabà ciccì coccò.

 

La cosa più curiosa e sorprendente di questo testo è costituita dalle civette che corteggiano (questo è il significato originario di “fare l’amore”) la figlia del dottore. Io ci ho pensato un po’ su: si può dare una spiegazione scherzosa? Beh, se pensiamo che civetta significa anche, in senso figurato, donna vanitosa e frivola che cerca di attirare in modo malizioso l’attenzione e l’ammirazione maschile (Tullio De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Torino, Paravia, 2000), allora tutto si spiega:
 

Ambarabà ciccì coccò,
tre civette sul comò
che facevano l’amore
CON LA FIGLIA DEL DOTTORE?!?
Io spiegarvelo saprei:
è civetta un po’ anche lei!

 

Un’altra possibilità è quella di invertire i termini: siccome questa non è matematica, cambiando l’ordine dei termini, il risultato cambia. Invertendo i termini cambiano le rime, ed è perciò necessario riscrivere la storia, facendo delle variazioni. Proviamo allora a invertire i termini dell’incipit:
 

Ambarabà ciccì coccò → Ambarabà coccò ciccì
Ambarabà ciccì coccò → Ciccì coccò ambarabà
 

e cerchiamo altri animali corteggiatori che sostituiscano le civette: ambarabà suggerisce gagà, che fa pensare al frac, e dunque ai pinguini; ciccì suggerisce chicchirichì, e dunque dei galletti, perfetti per fare, appunto, i “galletti” (galletto = uomo che corteggia le donne con baldanzosa spavalderia, De Mauro); cerchiamo pure un terzo incomodo, che non approva: ambarabà suggerisce pascià (titolo onorifico dell’Impero Ottomano) e ciccì, tanto per restare in ambito islamico, cadì (= magistrato islamico).
Ne viene fuori:
 

Ambarabà ciccì coccò,
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si arrabbiò,
ambarabà ciccì coccò.


Ambarabà coccò ciccì,
tre galletti nel tassì
tutti a far “chicchirichi”
per la figlia del cadì.
Il cadì non lo gradì,

ambarabà coccò ciccì.
 

Ciccì coccò ambarabà,
tre pinguini sul sofà
che facevano i gagà
con la figlia del pascià.
Al pascià però non va,
ciccì coccò ambarabà.


Altra possibilità: sostituire le parole senza senso dell’incipit con altre dotate di significato. A me ambarabà ha fatto pensare ad ambaradan = grande confusione, baraonda (De Mauro). Una filastrocca che parla di baraonda: bello no? Prometteva bene; ma come trasformare ciccì e coccò? Presto fatto: cin cin e King Kong:
 

Ambaradan, cin cin, King Kong,
 

Il verso successivo è arrivato subito:

tre cinesi sul Mekong

A fare cosa? Beh, la rima e l’ambientazione suggerivano immediatamente:
 

che giocavano a ping pong

In tre? Manca il quarto. Dato che siamo in Cina, ho pensato all’imperatore Ming; però Ming non rima con pong... ma con ping sì! Ecco allora la filastrocca completa:
 

Ambaradan, cin cin, King Kong,
tre cinesi sul Mekong
che giocavano a ping pong
(alternandolo al pong ping)
con l’imperatore Ming
finché non suonava il gong;
ambaradan, cin cin, King Kong.

 


Le variazioni su Ambarabà ciccì coccò
fanno parte della raccolta
GIRO GIRO QUADRO... TUTTO VA A SOQQUADRO!
Sarnus editore, settembre 2012.
 


Se l’argomento ti interessa, puoi leggere anche: 

FARE UNA FILASTROCCA – 2 
FARE UNA FILASTROCCA – 3 
FARE UNA FILASTROCCA – 4 
FARE UNA FILASTROCCA – 5 
FARE UNA FILASTROCCA – 6
FARE UNA FILASTROCCA – 7
 
FARE UNA FILASTROCCA – 8 
FARE UNA FILASTROCCA – 9
FARE UNA FILASTROCCA – 10
FARE UNA FILASTROCCA – 11
FARE UNA FILASTROCCA – 12
FARE UNA FILASTROCCA – 13


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lunedì 8 ottobre 2012

FOSCO MARAINI, ovvero L’ITALIANO A URLAPICCHIO



IL LONFO

(Detto da Gigi Proietti: clic)
(Interpretazione musicale di Coky Ricciolino: clic)
(Interpretazione musicale di Massimo Altomare e Stefano Bollani: clic)

Il lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,1
ma quando soffia il bego a bisce bisce2
sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta.
È frusco il lonfo! È pieno di lupigna3
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.4
Eppure il vecchio lonfo ammargelluto4
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi6
fa lègica busìa, fa gisbuto;7
e quasi quasi, in segno di sberdazzi8
gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto9
t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.10


1. ... non vaterca: espressione dialettale marchigiana, dal volgare «Vai a Terchi» (paese del Piceno famoso per i vespasiani in pietra serena). Comunque vatercare – così come mingere controvento – è cosa che il lonfo evita accuratamente di fare.
...raramente barigatta: non esistono testimonianze dirette che possano suffragare la teoria che ogni lonfo – in gioventù o nell’età matura – sia solito barigattare. Vittoria Contini Serpieri, nel suo Tutto quello che avreste voluto sapere sul barigatto ma non avete mai osato chiedere! (Edizioni La Lanterna, Genova, 1937), tratta ampiamente l’argomento ma nel suo esauriente testo non fa alcun cenno né al lonfo né ai lonfoidi in genere.

2 . ...soffia il bego a bisce bisce: è quel modo ignorante e fastidioso di spifferare a raffica che ha il vento di tramontana nella provincia di Bergamo («El bego sifùla cumpàgn al serpentùn»). Quando l’aria ghiaccia sferza il naso e le orecchie ogni buon cristiano è portato a sdilencare  - magari archipattando (zompettando sotto i portici) – come fanno i lonfi sprovvisti di cappotto col colletto di pelliccia.

3. ...frusco ...pieno di lupigna: che sono poi la stessa cosa, lo stesso stato di agitazione (e di rabbia) che assale il lonfo prima della castratura. «Meglio esser fruschi che cantare in chiesa» recita il motto dei cercatori di tartufo d’Alba che, quanto a lupigna, non sono secondi a nessuno e tante ne avrebbero da raccontare.

4 . Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna: mai cionfare davanti a un lonfo! È segno di mancanza di rispetto. È buona regola cionfare quando i lonfi, specialmente quelli giovani e irruenti, sono impegnati nella sbatarchiatura o nello sgrondolìo. Solo così si può evitare una sbidugliatura (spettinatura da scapaccioni) o – peggio ancora – una sonora arrupignatura (contemporanea torsione manuale – molto dolorosa – delle orecchie: la destra verso il basso, la sinistra verso l’alto).

5. ...ammargelluto: altra voce dialettale (napoletana) che però non riguarda solo i lonfi, ma tutti coloro che eccedono nel consumo di pizza Margherita e cannoli alla crema. Un famoso uomo politico italiano, costantemente ammargelluto, è il senatore repubblicano Giovanni Spadolini che mal sopporta i lonfi per la loro arcinota fedeltà alla monarchia.

6. ...fonca nei trombazzi: foncare nei trombazzi è considerato atto immondo (ma non per i lonfi) dal 1947, cioè dall’entrata in vigore della legge Bardelli-Lastrucci-Trerè (DC-PLI-PSDI) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 23/7/1947. Legge che all’articolo 2 – secondo capoverso – dice «...e quindi con effetto retroattivo, dal 1° gennaio 1947 è fatto divieto a chiunque di foncare nei trombazzi, pubblici o privati che siano, siti in frazioni, paesi e città di tutto il territorio della Repubblica Italiana».

7. ...fa gisbuto: «Il far gisbuto è d’uopo perché goder m’aggrada» cantava Lorenzo il Magnifico alle nobildonne della Signoria. Ma, mentre per ogni lonfo in grado di procreare il significato erotico dell’espressione è tuttora rimasto invariato, per la stragrande maggioranza degli altri tale significato è andato via via mutando fino ad arrivare all’attuale comune interpretazione. Come riporta ogni dizionario che si rispetti fare gisbuto, oggi, equivale a fare lo gnorri (colui che gnorra).

8. ...in segno di sberdazzi: il più classico e conosciuto segno di sberdazzi è quello che fanno i generali quando perdono una battaglia (Cambronne docet!). I lonfi, invece, sottolineano certi momenti di rabbia drizzando il dito medio della mano sinistra e puntandolo verso il cielo o, se trattasi di lonfo ateo, verso il meridiano di Greenwich.

9. ...zuto: ma è raro che un lonfo stia zuto. Di solito preferisce farne a meno. Alcuni lonfi, ovviamente i più carismatici, non stanno zuti nemmeno davanti a un’autorità.

10. ...e tu l’accazzi: solo chi ha provato sa quanto sia pericoloso, e nello stesso tempo esaltante, accazzare un lonfo. Infatti esistono solo due possibilità di accazzare un lonfo senza rimetterci la ghirba: o te lo ha chiesto lui o – per i lonfi ministeriali – sborsando una discreta somma in contanti.



IL GIORNO AD URLAPICCHIO

(Letto da Fosco Maraini: clic)
(Interpretazione musicale di Massimo Altomare e Stefano Bollani: clic)

Ci son dei giorni smègi e lombidiosi1
col cielo dagro e un fònzero gongruto2
ci son meriggi gnàlidi e budriosi3
che plògidan sul mondo infrangelluto,4

ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi5
un giorno tutto gnacchi e timparlini,6
le nuvole buzzìllano, i bernecchi7
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;8

è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,9
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio10
in cui m’hai detto  «t’amo per davvero».


1. ...smègi: come dice il protagonista de La città morta di D’Annunzio: «Un giorno smègio mi donasti i baci».
...lombidiosi: pieni di appuntamenti e di opportunità ma non sempre favorevoli. Classico giorno lombidioso fu il 15 marzo del 44 a.C. (le Idi). Proprio quel giorno Caio Giulio Cesare venne raggiunto da ben ventitré sorprese, a mezzo pugnale, che posero fine a ogni suo cruccio.

2. ...fònzero gongruto: vento di scirocco umido e attaccaticcio. Quando soffia per lunghi periodi le vesti della gente si trasformano in carta moschicida e le forme di pecorino si squagliano come la ceralacca vicino al fuoco.

3. ...meriggi gnàlidi: i classici pomeriggi dell’isola di Giava adatti alla coltivazione di riso, canna da zucchero e tabacco. Per la coltivazione del cocomero, invece, sono più adatti i meriggi manfàni del golfo di Taranto.
...budriosi: col sole o senza sole: a piacere.

4. ...infrangelluto: espressione napoletana che significa  «infastidito, scoglionato». Il femminile  «infrangelluta» descrive perfettamente quella dolorosa espressione che assumono alcuni politici quando vengono trombati alle elezioni: «Poverello... mo’ vedrai che faccia infrangelluta ci viene a Don Rafele!»

5. ...zìmpagi e zirlecchi: ambedue le espressioni vengono dal più puro dialetto milanese. Mentre zìmpagi sta per «spinte, pigiature» (es.: el muturìn del Gianni el va minga senza zìmpagi), zirlecchi significa «saltelli, ballonzolii» (es.: el stradùn che purtava a Rogoredo l’era tucc un bùs e inscì el furgùn faseva na sfilada de zirlecchi).

6. ...gnacchi e timparlini: mutuati dall’antico sassone (ted. gnakken und thimparlen). Ancora oggi in Germania gli gnacchi e i timparlini sono quei ciondoli che adornano la coda degli aquiloni o le ruote in cima al palo della cuccagna (cfr. F.M. Trabuchk, Spielen mit die Karussel, Arcibildung, Bonn, 1955). In questo caso il poeta usa metaforicamente tali vocaboli per significare gaiezza, giovialità e speranza nel domani.

7. ...le nuvole buzzìllano: quando non tira vento forte e quando la temperatura è tra i sedici e i diciannove gradi centigradi. Se cala il vento e la temperatura scende, smettono.
... i bernecchi: ginnocèfali, passeracci dentirostri color ruggine dal capo quasi nudo (scient. Gymnocephalus calvus) che muggiscono come vitelli. Vivevano solo in Brasile ma migrarono in Italia al seguito del calciatore Socrates (Fiorentina Football Club). Ludèrchiano coi fèrnagi.

8. ...fèrnagi: pettirossi, passeracci di sinistra (scient. Sylvia rubecola). Vivono sui pini e ludèrchiano coi bernecchi.

9. ...giorno carmidioso e prodigiero: come ha spiegato molte volte il colonnello (poi generale), che leggeva le previsioni del tempo alla televisione, i giorni si dividono in «carmidios»i e in «prodigieri». I primi iniziano col cielo sereno e finiscono col cielo nuvoloso, i secondi iniziano col cielo nuvoloso e finiscono col cielo sereno. Da ciò è facile dedurre che il giorno descritto dal poeta è iniziato col cielo sereno, è diventato nuvoloso verso mezzogiorno poi, nel pomeriggio, si è uteriormente rannuvolato rasserenandosi verso la fine della giornata.

10. ...ad urlapicchio: quando le nuvole buzzìllano e i bernecchi ludèrchiano coi fèrnagi; quando tutto è carmidioso e prodigiero; quando lei vi ama...


(Le note sono di Maro Marcellini.)


FOSCO MARAINI
(Firenze, 1912 – Ivi, 2004)
con la famiglia
(da sinistra) Yuki, la prima moglie Topazia Alliata, Dacia e Toni
(foto di Oishi Kuranosuke)


La vita di Fosco Maraini si svolge all’insegna della tensione fra polarità opposte:
– di padre italiano e di madre figlia di un inglese e di una polacca, cresce fra cattolicesimo e protestantesimo: Essendosi comunque sviluppato il mio endocosmo in Toscana, quindi in Italia, le primissime scosse culturali che ho avuto sono state legate alla scoperta del mondo protestante, molto diverso da quello cattolico. Mia mamma era inglese, ma si era molto italianizzata. Ma c’erano delle zie inglesi che invece restavano solidamente ancorate all’endocosmo protestante: il contatto con loro mi ha rivelato quale profonda distanza ci possa essere tra i mondi interiori di ciascuno. (F. M.); un esempio? Eccolo: Il cibo rivela molto di una cultura. Da bambino, durante un’assenza dei miei genitori, una mia zia inglese venne a stare con noi. Davanti alle mie lamentele per i suoi piatti davvero immangiabili, se ne uscì con l’affermazione, per me strabiliante:
“My dear boy, food must not taste good.” Il cibo deve servire per nutrire, non deve essere buono: questo è un punto di vista tipicamente protestante, assolutamente incomprensibile per un cattolico. Perché per un cattolico ci sono i digiuni, ma solo in certi periodi c’è il magro, ma insomma anche il magro può essere ben condito. (F. M.);
– figlio di artisti (il padre Antonio Maraini è scultore, la madre Yoi Crosse è scrittrice), prende una laurea scientifica, in Scienze Naturali;
– applica il rigore scientifico alla ricerca umanistica, dedicandosi agli studi etnografici;
Un termine che ho spesso usato con un certo divertimento è quello di Citluvit, che sarebbe il Cittadino Luna Visita Istruzione Pianeta Terra.
Io penso che l’endocosmo del Citluvit mi sarebbe molto congeniale.
Gli appartiene il desiderio di scoperta e di esplorazione. Fin da bambino, bilingue e dalla doppia nazionalità, ho vissuto ogni esperienza come un’avventura e una scoperta, proprio come il Clé di Case, amori, universi.
– di cultura occidentale, si dedica allo studio dell’Oriente: gira tutta l’Asia, esplora il Tibet e studia il Giappone;
Negli anni ‘30 non era poi così eccezionale andare in Asia orientale. Solo che ci volevano quaranta giorni di viaggio [...].
Era un viaggio lungo, lento, qualche volta anche penoso, sia per il cattivo mare sia per il caldo, ma si vedeva tanto mondo, si imparavano tante cose: era come fare un autentico “corso in asiologia”. Si cominciava dall’Egitto, poi Bombay, Colombo, Manila e finalmente Shanghai, da dove si andava a Kobe. Quei sette e otto porti che si vedevano erano tutti interessantissimi, nel senso che c’erano persone diverse, costumi diversi, odori diversi, suoni diversi, cieli diversi: era davvero appassionante. Se penso che adesso bastano undici ore per arrivare a Tokyo, senza aver visto niente, credo proprio che fra i due sistemi, l’antico era migliore. (F. M.);
– laureato in Scienze Naturali presso l’Università di Firenze, vi ritornerà come docente, ma per insegnarvi Lingua e Letteratura Giapponese;
– Si sposa due volte, da giovane con la nobildonna siciliana Topazia Alliata, in tarda età con la giapponese Mieko Namiki.

È da questo humus che nasce il gusto per la sonorità delle parole: il fatto d’esser cresciuto parlando lingue diverse, e d’averne poi  imparate delle altre, alcune di cui peregrine assai, mi ha reso cosciente sin da piccolo della parola come oggetto, cosa, fastello di suoni, polline di sogni. [...] Pian piano imparai ad amare le parole col gusto che il musicista ha per i suoni e per i timbri, il pittore per i colori e gli impasti, lo scultore per le forme e la pelle della materia; ma in più c’era tutta l’infinita ricchezza semantica, il mondo sconfinato dei pensieri e dei sentimenti che le parole risvegliano e mettono in moto, che sono capaci d’evocare con precisione terribile o vaghezza dolcissima. (F. M., Introduzione a Gnòsi delle fànfole)
Da qui nasce l’amore per i dizionari e soprattutto per le nomenclature e, ancora di più, per i nomi di luogo. Termini scientifici estremamente evocativi, come quelli che designano le terre rare, per esempio, scoperte nei suoi studi scientifici: Lantanio, Praseodimio, Ittrio, Olmio, Erbio, Disprosio... certo Disprosio fu qualcuno! [...] Forse, anzi certo, era un filosofo «Lo ha detto Disprosio stesso.» Ma poteva anche essere uno squisito di qualche luminosa decadenza, tra bizantina e tardogallica. Parlare delle «delizie di Disprosio, dei giardini di Disprosio, delle alcove di Disprosio» parrebbe singolarmente appropriato, no? (F. M., Introduzione a Gnòsi delle fànfole). Oppure nomi di luogo intelleggibili come quelli dei monti Paglia Orba e Incudine o misteriosi come il Deserto degli Agriati (in Corsica)

Da quei termini scientifici inusuali e da questi curiosi nomi di luogo alle parole inventate delle fanfole il passo è breve.
Sono parole inventate che leggiamo (o sentiamo) per la prima volta, eppure risultano singolarmente evocative: qual è il loro segreto? La chiave ce la dà il titolo stesso della raccolta: quelle fanfole che sono un organismo OGM (OrtoGraficamente Modificato): un montaggio di fole e pezzi di fanfaluche, con abbondante uso della fantasia.
Proviamo a esaminare Il giorno a urlapicchio. Smègi evoca mogi, ma anche sfregi (notare la “e” larga che appesantisce il tutto); carmidioso sembra una legittima derivazione da carme (incrociato con radioso o con melodioso?) e prodigiero non è che una variante genetica di prodigioso (provate a invertire: carmidiero e prodigioso: il primo perde di forza, il secondo diventa troppo ovvio). Naturalmente non sempre le corrispondenze sono così precise; a volte i richiami sono labili: zìmpagi e zirlecchi evocano zompi e zampilli, a volte il gioco è completamente gratuito: i bernecchi e i fèrnagi, per esempio (però è chiaro cosa fanno, perché luderchiano deriva chiaramente dal latino ludus = gioco).
Non mancano le onomatopee: gnàlidi fa pensare all’importuno gnaulare di un gatto; gnacche suggerisce un colpo secco ed energico (un fumettistico gnac risciacquato in Arno).
Ma conta molto anche il ritmo e la posizione degli accenti: l’atmosfera plumbea e stagnante iniziale è sottolineata dalla predominanza delle parole piane e con poche consonanti doppie, mentre l’eccitazione finale è resa mediante un abbondante uso di parole sdrucciole e di consonanti doppie.
Si tratta dunque di invenzioni verbali tutt’altro che gratuite e, quindi, tutt’altro che facili: Confesserò inoltre – ciò che farà ridere, o peggio sorridere, i benpensanti – che quasi ogni parola è frutto d’un lungo studio. Certe espressioni proprio non mi venivano per mesi, sapevo quello che cercavo, ma il sassolino giusto la marea non me lo gettava mai sulla spiaggia. Poi un certo giorno, magari facendomi la barba, cambiando una gomma della macchina, studiando gli ideogrammi cinesi o seduto sulla neve al sole, eccoti il sassolino cercato. (F. M., Introduzione a Gnòsi delle fànfole)

Fosco Maraini definisce “metasemantica” la sua poesia: se nel linguaggio usuale per creare una parola nuova si parte dal significato (canna + occhiale = cannocchiale; pro + fanum (“davanti al tempio”, cioè “fuori dalle sacre cose”) = profano; béchamel, dal nome del marchese di Béchamel), nel linguaggio metasemantico Proponi dei suoni ed attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. È dunque la parola come musica e scintilla (F. M., Introduzione a Gnòsi delle fànfole): la parola come materiale sonoro, in primo luogo, che, in secondo luogo, “accende” il significato.
Ne risulta una sorta di poesia al quadrato:
–  se infatti il linguaggio poetico, a differenza del linguaggio comune, non è (tendenzialmente) univoco, ma è pregno di significati multipli, rimandi e suggestioni, non solo mentali, ma anche sonore;
–  se inoltre, il testo poetico è bipolare, costituendo il tramite fra scrittore e i lettori, che lo decodificano e interpretano ciascuno secondo la propria personalità e cultura,
è evidente come tutto queste caratteristiche, nel caso della poesia metasemantica, si amplifichino a dismisura.

Il rischio è che si amplifichino così tanto da precludere una qualsiasi comprensione, per quanto vaga. Rischio, mi sembra, sostanzialmente evitato. Paventando, fra il serio e il faceto, questo rischio, Maro Marcellini ha aggiunto alle fanfole di Maraini un vasto apparato di note che a volte chiariscono i significati ma più spesso fingono semplicemente di farlo, prendendo a prestito e mettendo così alla berlina il linguaggio serioso del mondo accademico. E ci prende gusto: a fronte di mezza pagina di poesia, ne troviamo due di note! Ma ci prende gusto anche il lettore, perché le note sono altrettanto godibili delle poesie.

NOTA
Versione corretta l’8 ottobre, sera: nella precedente versione non avevo rilevato il contributo di Maro Marcellini. Me ne scuso con tutti.


LETTURE CONSIGLIATE

            Io vi consiglierei caldamente
Fosco Maraini, Gnòsi delle fànfole, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2a ed., 2007,
che contiene il CD con la versione musicale delle Fànfole, di Massimo Altomare e Stefano Bollani; ma purtroppo il libro è esaurito, come pure la prima edizione dello stesso editore – senza CD – del 1994.
L’edizione di Baldini e Castoldi rappresenta l’ampliamento della prima pubblicazione delle Fànfole: un’edizione privata, in 300 copie (Bari, 1966); in www.maremagnum.com se ne trova in vendita una copia: basta sborsare 350 euro!

SITI INTERNET:
     Sito “morto”, ma contenente interessanti citazioni di Fosco Maraini.
Pagina del sito del Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Viessieux, dedicata a Fosco Maraini, di cui conserva la biblioteca e la fototeca.




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