GUIDO ABRAMO VERONA
(Saliceto Panaro, comune di Modena, 7 maggio
1881 – Milano, 5 aprile 1939)
in arte (e in seguito anche all’anagrafe)
GUIDO DA VERONA
(Caricatura)
Nella vita e nell’arte
l’humour è forse il più difficile fra i commenti alle cose umane. Desidero
conservare integro il mio diritto a sorridere di me stesso e degli altri – anzi
di me stesso ancor più che degli altri. (Guido Da Verona, Lettera
d’amore alle sartine d’Italia, 1924)
Nella sua
parodia dei Promessi sposi Guido da Verona rispetta l’impianto generale
dell’opera, nei personaggi, negli snodi narrativi, negli ambienti, applicandovi
però i procedimenti:
a –
dell’abbassamento: per esempio la disputa che porta il futuro padre Cristoforo
a commettere un assassinio rimane originata da un questione di precedenza, ma
fra due cani!
b – del
rovesciamento:
Fatto
sta che nel Lazzaretto di Milano i forestieri e i senza tetto si trovavano
benissimo. Camere ben aerate, servizio inappuntabile, cucina scelta,
riscaldamento centrale, bar e salone di lettura aperti a tutte le ore, una
orchestrina di tango e di jazz fatta venire espressamente d'oltre Atlantico,
per emulare quella, già un po’ sfessata, di Bianco Bacicia. Tutti coloro che
potevano venir ammessi al Lazzaretto Palace vi si
trovavano così bene, da non volerne più uscire che morti. (Da Verona,
XXVIII)
c –
dell’attualizzazione:
–
Carneade! Chi era costui? — ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone
[...]. (Manzoni,VIII)
–
Benedetto Croce?... Chi era costui? - ruminava tra sé don Abbondio seduto sul
suo seggiolone [...]. (Da Verona,VIII)
E
così don Rodrigo gira in Chrysler, padre Cristoforo gioca in borsa, ecc. Una
attualizzazione che ha intenti talvolta di denuncia (in questo caso della
speculazione edilizia):
Nel quartiere
di Porta Comasina stavasi ultimando un edilizio di cemento armato, già venduto
per appartamenti prima d’essere costruito, e perciò compiuto in 22 giorni; ma
non appena vi fu entrata a dimora la portinaia, prima inquilina, lo stabile
giudicò il suo peso eccessivo, e risolse di abbattersi fino alle fondamenta.
(Da Verona, XXXII)
Il
procedimento dell’abbassamento investe naturalmente anche i personaggi: don
Abbondio, per esempio, non è solo pavido (con la “p”), ma anche avido (senza la
“p”): trova inadeguata la bustarella passatagli dai bravi per rinunciare a
celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia.
Ma
l’aspetto su cui Da Verona insiste di più– com’era ovvio per chi ne conosceva
la produzione letteraria precedente – è quello sessuale. Lucia diventa così un
bel pezzo di figliola, del tutto disinibita, che non disdegna le attenzioni di
don Rodrigo, che risveglia – concedendogli le sue grazie – la sessualità sopita
dell’Innominato e che si prostituisce in casa di donna Prassede. Perfino la
figura della Monaca di Monza – già scabrosa di suo – viene intensificata da
questo punto di vista, trasformandosi in una precoce ninfomane non immune da
tendenze saffiche. Non ne rimangono esenti nemmeno i sacerdoti: don Abbondio
vive con Perpetua more uxorio e Renzo, in fuga da Milano in vesti
femminili, subisce le avances di un prete incontrato per strada; perfino
Federigo Borromeo fruga nel seno di Lucia (sia pure con intendimenti
epistolari – per recuperare una lettera – chiosa ironicamente Da Verona).
Ma la parodia
di Guido Da Verona non si limita ai contenuti: investe anche gli aspetti
linguistici. Esaminiamoli.
a – L’uso
manzoniano dei suffissi, che agli occhi nostri fa tanto telegramma, viene
irriso facendoli proliferare all’eccesso e oltre i limiti del lecito:
Renzo,
questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla
piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di
sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto; in quanto al saccheggio, non
avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio
gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta
docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse
persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’
poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche
parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito
proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era
cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi.
[...]
I
magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a
chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta
Giovia; il quale mandò alcuni soldati. (Manzoni, XIII)
Renzo,
questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portàtovici
dalla piena, ma cacciàtovicisi deliberatamente. Poco avvezzo agli svaghi
ed agli spassi che seralmente offre una grande città come Milano, voleva in
tutte le cose ficcàrvicisi dentro col naso, e n’ebbe, quella sera per
più del suo gradimento.
I
magistrati, ch’ebbero per primi l’avviso di quel tumulto, mentre stavano come al
solito giocando al tressette o allo scopone, se pur non stavano in quel mentre
consumando fellonia più grande, quali mezzo scamiciati e smutandati, quali con
l’asso di coppe o il sette di briscola in mano, si precipitaron ai telefoni per
radiofonoconsultàrvicisi l’un l’altro. Ma poiché parlavano tutti insieme
da punti opposti della città, ed occupavamo tutti i privati e pubblici telefoni
della rete inurbana, produssero una interferenza d’onda, la quale fece loro
udire un pezzo della Carmen.
[...]
Questo fece con doppio fine; vuoi per distogliere
l’attenzione della folla dalla casa del Vicario, vuoi perché è supremamente
giusto che dove sónoci i pompieri siàvici almeno un incendio.
(Da Verona, XIII)
....Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente
s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E
d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in
mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato,
come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era
arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con
cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con
certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni.
«Largo canaglia!» gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana
lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi,
anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano
anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi
scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto
gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a
sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come
pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che
veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano
alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e
fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano,
non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era
tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi
si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto
di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi
alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba
lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra
Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve
a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano,
nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo
palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per
islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava
brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò
cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad
aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto
quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si
raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto
era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme
si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un
ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le
membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di
guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede
un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. (Manzoni, XXXIII)
Gli pareva
di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovàrvicisi,
che non sapeva come fossevici recato, perché in chiesa, dopo la cresima
e la prima comunione, egli non éravici mai più tornato. Guardava i
circostanti: eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati,
abbacinati, con le labbra spenzolate, come se questa chiesa si trovasse in
Cina, e dentro la chiesa fosse una fumeria d’oppio. Egli, gridava: «Largo
canaglia!», tentando insieme di sfoderare la spada. Ma poiché la spada, stando
in letto, non l’aveva, e il «Largo canaglia!» lo gridava in milanese, lingua
che non è conosciuta nel Celeste Impero, quei lazzaroni, anziché scostarsi, gli
si serràvanvicisi addosso, sempre più. Anzi uno, o forse una (chi poteva
ben distinguere i sessi, fra quei Cinesi che avevan tutti il codino) ebbe
l’imprudenza di mettergli una mano, oppure un gomito, sotto il cuore, sotto
l’ombilico, nella piegatura dell’inguine, dove, ad un incirca, egli sentivavicisi
una puntura dolorosa, e come pesante. E se si torceva per veder diliberarsene,
sùbito un nuovo non so che veniva a puntàrglivicisi nel luogo medesimo.
Quelle cinesine hanno certi mezzi per stuzzicare gli uomini, che in Europa son
dei tutto sconosciuti. Infuriato, volle metter mano alla spada: ma poiché
spade, come già dicemmo, stando in letto non ne aveva, giunse nondimeno ad
afferrare qualche altro arnese. Le nostre più accurate indagini non son
riuscite ad appurare quale arnese fosse. In quel momento gli parve che tutti
quei Cinesi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e
dal parapetto di quello spuntar su un non che di convesso, liscio e luccicante,
che sembrava il cranio d’un cappuccino, ma era probabilmente il globo della
lampada di Murano appesa nel mezzo della stanza. A tal vista don Rodrigo
scoppiò in un grand’urlo, e si destò.
Impiegato
un certo quel tempo, per rassicurarsi che egli era ben nella sua camera, e ben
nel suo letto, si raccapezzò che tutto era stato un sogno, tutto era sparito;
tutto, fuorché una cosa: quel dolore al di sotto dell’ombelico. Esitò qualche
momento prima di guardar la parte dove aveva il dolore: finalmente la scoprì, ci
diédevici un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido
paonazzo. (Da Verona, XXXIII)
È
una proliferazione tumorale di suffissi che ricompare più volte nel corso del
romanzo; ma l’esempio insuperabile rimane questo:
Quando
già la Chrysler stava per giungere nei pressi della Santa, don Rodrigo rammentossi
ch’egli erasi dimenticatosi d’impartire un certo ordine ad altri
suoi bravi ch’erano rimasti colassù nel Castello. (Da Verona, XXV)
b – La
tendenza del Manzoni alle frasi complesse, dense di ramificazioni (frasi che
fanno desiderare una mappa per non perdervisi – o, direbbe Da Verona, perdervicisi)
viene amplificata fino all’inverosimile
b1
– moltiplicando le proposizioni:
La mattina
seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e
le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle
case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudicerìa,
giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto
sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un
più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la
cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla a un
sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato,
né il primo né l'ultimo di tal genere. (Manzoni, XXXI)
Una terza
ipotesi, che noi riferiamo per semplice dovere di cronaca, è questa: si
trattasse di gente che, durante la sera e la notte, contrariata dalla
straordinaria mancanza di comodi luoghi vespasiani venuta a verificarsi nella
città di Milano con l’abolizione di quelli che un tempo onoravano gli angoli di
quasi tutte le strade, e conseguente apertura di rifugi sotterranei, che però
erano scarsi, a distanza di alcuni chilometri l’un dall’altro, sicché, se pur
riuscisse al paziente discoprirli, il più delle fiate gli avveniva di trovarli,
dopo il calar del sole, ermeticamente chiusi; per il qual modo ben era
possibile, nella dotta e opulenta città di Milano, soddisfare ai propri bisogni
corporali se non entrando ad ascoltare il concerto in qualche birreria, - è
dunque nostra opinione potesse trattarsi di gente che, per deplorazione d’un
simile stato di cose, e per fare una grande manifestazione pubblica agli occhi
del Gran Cancelliere e del successore di don Gonzalo, avesse prescelto i
portoni, i muri, le saracinesche, gli zoccoli delle case patrizie e di
commercio, a far l’uffizio dei luoghi ad hoc, che veramente
scarseggiavano, affinché ognuno intendesse la sovrana urgenza e necessità nella
quale venivano a trovarsi i milanesi di veder ripristinate le lor vetuste
edicole, ed insieme fosse palese come, nella gran febbre di ricostruzione che
tutta scoteva la città rinnovellantesi, fosser dimenticati que’ soli edifizi,
dei quali, da un sesso e dall’altro, da secolari come da monaci, più tempestiva
era sentita l’urgenza. (Da Verona, XXXI) È un periodo unico: provate un po’
a leggerlo senza tirare il fiato! L’allievo ha superato il maestro.
b2 –
interpolando il testo originale mediante la proliferazione degli aggettivi:
Non
era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi
un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi
stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del
crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. (Manzoni, XXXVII)
Mentre
parlavano, in quel di Pasturo non era mai spiovuto. Ma, ad un certo punto, da
diluvio era divenuta pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta,
uguale uguale, mogia mogia, lene lene, quietina quietina; i nuvoli alti e radi,
quali oscuri, quali meno oscuri, quali frastagliati, quali un po’ meno
frastagliati, e quali niente del tutto, stendevano un velo non interrotto, ma
leggiero e diafano, trasparente e permeabile, morbido e vaporoso, perlaceo e
madreperlaceo; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d'intorno.
(Da Verona, XXXVII)
L’interpolazione
viene usata anche per intensificare l’ironia già presente nel testo originale:
Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo
che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di
Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura,
con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con
qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie
lapidum, animalium, plantarum, del Cardano al Trattato dell’erbe, delle
piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto,
sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili
e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le
forme e l’abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la
salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel pesciolino,
abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare,
qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno
delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio
lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’
più maravigliosi segreti della natura. (Manzoni, XXVII)
Delle scienze naturali s’era fatto un passatempo più
che uno studio. L’opere stesse di Aristotile e di Plinio su questa materia, gli
parevan nulla in confronto dei Manuali
Hoepli. Tuttavia, con qualche scorsa data alla Magia Naturale del
Porta (bisnonno di Carlo Porta), alle storie lapidum, animalium, plantarum
del Cardano (figlio di quel Cardano del quale è detto sopra), al Trattato
dell’erbe, delle piante, degli animali, di Alberto Magno (genero di Carlo Magno),
a qualche altra opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una
conversazione ragionando delle virtù più mirabili dell’Ischirogeno o
dell’Idrolitina; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene
e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare
(quando il fuoco è spento); come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e
l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave
(sopra tutto se questa nave riceve un siluro o va contro uno scoglio); come le
gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie (sempreché vi
sia un banchiere che ne paghi il conto al gioielliere); come il camaleonte si
cibi d’aria (quando non trova nessuno che lo inviti a pranzo); come dal
ghiaccio lentamente indurato, con l’andar dei secoli si formi il cristallo (e
il cristallo diventi una bottiglia od un’invetriata, secondo l’uso che se ne
vuol fare); e altri de’ più meravigliosi segreti della natura. (Da Verona, XXVII)
o
per aggiungere l’ironia dove non c’è:
Da
questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente
il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna,
anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e
quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo
bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella
quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far
vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è
scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per
rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere,
senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di
trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a
qualche cosa s’interessa in tutto questo. (Manzoni, XXVII)
Da
questo, il Manoscritto passa poi alle lettere amene; ma, appunto perché amene,
noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar
avanti con lui in questa rassegna (ma le pare:... non sia così modesto!
continui pure, la prego!...), anzi a temere di non aver giù buscato il titolo
di copiator servile per noi (oh, ma cosa dice!...) e quello di seccatore, da
suddividersi con l’Anonimo sullodato, (che barba!...), per averlo bonariamente
seguito sin qui, in cosa estranea al racconto principale, per sfoggiar
dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo.
Però,
lasciando scritto quel ch’è scritto, per non perder la nostra fatica,
ometteremo il rimanente (ah, che peccato!...) e provvederemo a rimetterci in
istrada: tanto più che n’abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare
alcun de' nostri personaggi (ne sia lodato il cielo!), e uno più lungo ancora
prima di trovar quelli, ai fatti dei quali certamente il lettore s’interessa di
più (ma lei scherza!...), se a qualche cosa s’interessa in tutto questo,
(creda, signor Anonimo: a niente, proprio a niente!...). (Da Verona, XXVII)
c
– In altri casi il testo viene invece tagliato; è il caso di una pagina
celeberrima, che un tempo si imparava a memoria, e che proprio per questo può
essere ironicamente (o perfidamente?) tagliata (ma la memoria, si sa, è
traditora: e così va a finire che l’Addio monti si ibrida con l’Otello
scritto da Arrigo Boito per Giuseppe Verdi):
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali,
note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia
l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio,
come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo,
come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi,
cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne
parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si
disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia
d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che,
un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si
ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa
e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte
a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e
davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto,
al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messi gli occhi
addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. (Manzoni, VIII)
OTELLO
[...]
Ora e per sempre addio sante memorie,
addio, sublimi incanti del pensier!
Addio schiere fulgenti, addio vittorie,
dardi volanti e volanti corsier!
Addio, vessillo trionfale e pio,
e diane squillanti in sul mattin!
Clamori e canti di battaglia, addio!
Della gloria d’Otello è questo il fin.
(A. Boito, Otello, atto secondo, scena
quinta)
Addio
monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi...
eccetera; torrenti de’ quali... eccetera, ville sparse e biancheggianti sul
pendio, come branchi... eccetera; addio casa natia, dove, sedando, con un
pensiero... eccetera; addio, casa ancora straniera, sogguardata non senza
rossore; addio, chiesa dove l’animo tornò tante volte sereno, addio, per sempre
addio, sante memorie, e volanti corsieri!... (Da Verona, VIII)
d
– Il ricorso manzoniano ai paragoni è ripreso, ma viene immediatamente
vanificato dalla logica impeccabile ma risibile di quelli daveroniani:
Lucia
divenne rossa come le nespole del Giappone, che sono gialle, ma che si posson
dipingere di rosso.
Questa,
per il piacere, divenne tutta rossa come le olive in iscatola; - le quali sono
verdi, o anche nere, ma si possono dipingere di rosso. (Da Verona, XXXVIII)
e
– La lingua viene usata ludicamente
e1 – prendendo alla lettera i modi
di dire, con esiti surreali:
[Renzo] vede
il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli
dice: «son qui». Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al
collo scambievolmente. (Manzoni, XVII)
I
due cugini, che da un pezzo non si vedevano, (anzi, noi crediamo che non si
fossero mai visti), si voltano simultaneamente, si affisan gli occhi negli
occhi, poi fanno l’atto di corrersi incontro e di buttarsi le braccia al collo.
Ma, per far più presto ancora, si staccano addirittura le braccia, e se le
buttano al collo scambievolmente. Poi ognuno riprende le proprie, e si mettono
a ragionar dei fatti loro. (Da Verona, XVII)
Senza
por tempo frammezzo, [don Rodrigo] diede ordine al Griso di far marcia
indietro. Questi interpretò l’ordine alla lettera, e rifece tutta la strada a
marcia indietro, dalla Santa fino al castello del signor don Rodrigo. (Da
Verona, XXV)
e2
– utilizzando comuni modi di dire, ma con slittamenti di significato; qui
“rodersi” (il fegato) diventa, mediante i tipici procedimenti parodici
dell’abbassamento e dell’amplificazione, “rodersi le unghie” (prima le proprie
e dopo le altrui):
Don
Rodrigo, fulminato dalla notizia impensata, cioè che l’Innominato e il
Cardinale si fosser messi d’accordo per carpirgli quel bel tocco di ragazza, se
ne stette rintanato nel suo pallazzotto [sic], solo co’ suoi bravi, a rodersi
le unghie per ben due giorni. Ma poiché le sue sole unghie non bastavano per una
rosicchiatura protratta così a lungo, il secondo giorno egli si accinse a
rodere quelle de’ suoi bravi, e quando nessuno nel castello ebbe più unghie, il
signor don Rodrigo decise anch’egli di partir per Milano. (Da Verona, XXV)
e3 – variando espressioni
consolidate:
[Lucia, colta
in deshabillé da don Abbondio] – [...] Non stia a guardare come son
svestita... vede bene che non mi aspettavo all’onore di una sua visita. (Da
Verona, XXIV)
[Lucia in
casa di donna Prassede - dove si prostituisce, a Renzo] – [...] Voi mi trovate
ora sotto questi panni... o meglio, senza questi panni; ma... (Da Verona,
XXIV)
Ma Guido Da Verona va oltre la
parodia, abbandonandosi al piacere dell’invenzione linguistica:
Renzo
trasse fuori il suo albero ginecologico (che i mal parlanti chiamano
genealogico). (Guido Da Verona, XXXVII)
In
questo senso, il massimo viene raggiunto nell’uso degli etnici (cioè i nomi o
aggettivi che indicano l’appartenenza a una popolazione):
Monza:
monzese,
monzina, monzasca o monzigiana che dir si voglia (IX)
Bergamo:
i bergamini,
bergamesi, bergamotti, o bergamigiani che dir si voglia (X)
gli ameni
paeselli del leccoburgo e del bergamigiano (XXV)
(che danno perfino origine a
un’imprecazione: n’ho fin sopra i bergamicoli di portar sottana, XVII)
Brianza:
Era però
sempre un bel tocco di brianzolarda (XXXVIII)
Casale /
Casalpusterlengo / Casamicciola:
i casalesi,
casalgoti o casalpusterlenghi che dir si voglia (XXVII)
i
casamicciolesi, casalernitani, o casalmamalucchi che dir si voglia (XXVII)
una
bella casalpusterlenghese (XXVII)
un
casalpusterlenghese in più (XXVII)
i casalesi,
casalinghi o casigliani che dir si voglia (XVIII)
Milano:
milanovingi
(XV)
milanesardi
(XVII)
i
signori milanesardi (XXXIII)
i
milanesardi (XXXIV)
altri
milanesardi (XXXIV)
chi
è nato nel milanesasco e vuol vivere nel bergaminese (XVII)
le
avventure milanesi e bergamigiane del famigerato Renzo (XXVII)
e
addirittura (udite, udite!)
un
milanese (XVII)
ambrosiani
(XXV)
Ma
questo è niente in confronto agli innumerevoli e fantasiosi etnici degli
abitanti di Lecco, un vero e proprio tormentone che percorre tutto il romanzo:
Leccobardi (I)
il lecchese,
o lecchino, o lecchigiano che dir si voglia (IX)
nel
leccoburghese (IX)
leccoburghese
(IX)
i leccurdi,
leccofanti, o leccobalesi che dir si voglia (XI)
al lecchese,
leccardo, leccovinzio o leccofante che dir si voglia (XII)
il leccofante (XII)
il buon leccoburghese (XII)
lecchigiano,
leccardo, leccovingio o leccodopolitano (XIV)
lecchigiano,
leccovingio, leccoburghese o leccofante che dir si voglia (XIV)
leccodopolitano (XV)
leccodopolitani (XV)
leccovingioto (XV)
leccobardo (XV)
leccorioto (XV)
lecchirioto,
lecchígero, o leccheronzolese che dir si voglia (XVI)
leccobarda (XV)
chi è nato nel milanesasco e vuol
vivere nel bergaminese (XVII)
i leccovingi,
leccoslovacchi o leccobardi che dir si voglia (XXV)
i leccurdi
lecconesi, o leccomanni che dir si voglia (XXV)
i
leccomirditi, leccofanti o leccoburghesi che dir si voglia (XXV)
i leccóbrogi
o leccomanciuri (XXV)
lecchese,
leccurdo o leccomitano che dir si voglia (XXV)
gli ameni paeselli del leccoburgo e
del bergamigiano (XXV)
i leccovingi,
leccofanti, leccoslavi o leccoslovacchi che dir si voglia (XXV)
lecchigiardi
o leccoslovacchi che dir si voglia (XIX)
quel montuoso territorio che, dal
nome de’ suoi abitanti, i Leccobardi, giustamente vien detto Leccobardìa
o Leccoburghese (XXXIII)
una
blasfemia leccobarda (XXXIII)
in
quel ciel di Leccobardìa (XXXIII)
da
buon leccoburghese (XXXIV)
il
leccobardo (XXXV)
il
leccobardo (XXXVI)
il
valente giovin leccobardo (XXXVII)
in
Leccobardìa (XXXVIII)
l’unione
delle due grandi stirpi leccobarde (XXXVIII)
una
semplice donna leccobarda (XXXVIII)
Ed eccoci giunti, miei diletti
venticinque lettori, alla fine della storia. La quale, se non v’è dispiaciuta
affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, a chi l’ha raccomodata, a chi l’ha
parodiata, e anche un pochino al sottoscritto che ve l’ha raccontata. Ma se in
vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.
La prima parte del post su Alessandro Manzoni e
Guido Da Verona di trova qui.
SITI INTERNET
Per chi desiderasse approfondire l’argomento,
consiglio la lettura dei seguenti saggi:
– Giuseppe Sergio, “I Promessi Sposi” di Guido Da
Verona: appunti sulla lingua e sullo stile, in
– Massimo Laganà, Guido Da Verona e la parodia de
“I Promessi Sposi”, in
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