sabato 28 aprile 2012

PERLE: DISTRAZIONE


Il tesoriere Belsito avrebbe distratto fondi della Lega a favore dei famigliari di Bossi. (Rainews, 3 aprile 2012)
Eh, sì, se un tesoriere (uno? facciamo due) dirotta i soldi nelle tasche sbagliate (di amici o, perché no, proprie), il fatto, tecnicamente, si chiama “distrazione”.
Succede anche che se a un uomo politico pagate l’appartamento o la ristrutturazione della casa, quello, tutto preso dai suoi impegni, neanche se ne accorge: anche questa, direi, è distrazione. O no?

sabato 21 aprile 2012

GIOVANNINO GUARESCHI ovvero PER NON DIRE “MOGLIE” - 2


Le perifrasi per non dire “moglie”, pubblicate nella prima parte, sono tratte da:
Osservazioni di uno qualunque, in Bertoldo, 1939-1943.


GIOVANNINO GUARESCHI
(Fontanelle di Roccabianca, Parma, 1º maggio 1908 – Cervia, Ravenna, 22 luglio 1968)

È morto lo scrittore che non era mai nato: così L’Unità annunciava la morte di Giovannino Guareschi: un titolo discutibile, e non solo per il cattivo gusto, se si pensa che Guareschi era (ed è) uno degli scrittori italiani più letti al mondo (il primo libro della saga di don Camillo e Peppone – Mondo piccolo. Don Camillo, Milano, Rizzoli, 1948 – all’epoca era già stato tradotto in ungherese, giapponese, ebraico, tedesco, inglese, francese, danese, spagnolo, islandese, finlandese, portoghese, olandese, svedese, lituano, polacco, turco, lettone, sloveno, a cui negli anni successivi si sarebbero aggiunti norvegese, croato, ucraino, ceco, basco, coreano, rumeno). Ma Guareschi con la sua attività di giornalista e di scrittore si era fatto molti nemici, e non solo fra i comunisti: era un vero reazionario, che rimpiangeva un’Italia rurale che non c’era più e che vedeva nel boom economico non solo l’allontanamento dalla vera ricchezza, costituita dalla terra, ma anche la scomparsa dei veri valori, quelli tradizionali, spazzati via dal consumismo.
Guareschi è universalmente noto per i racconti del mondo piccolo di don Camillo; meno conosciute sono invece le cronache di un mondo ancora più piccolo: quello della sua famiglia. Lo scrittore vi trasfigura umoristicamente i suoi rapporti con la moglie Margherita (che nella realtà si chiamava Ennia Pallini) – una donna dalla logica, diciamo così, “creativa” – e con i figli che, come Harpo e Groucho Marx, sembrano essersi spartiti i campi della comicità: gag soprattutto fisiche per Albertino (il piccolo martellardo), gag verbali per Carlotta (soprannominata dal padre “la Pasionaria” per le sue preoccupanti tendenze rivoluzionarie: essendo nata a Parma È una comunista storica, anzi, ancora di più; è una comunista geografica).

Si può far ridere creando una situazione comica – e in questo Guareschi è maestro – ma si può far ridere anche col modo con cui si racconta una situazione, non necessariamente comica – e in questo Guareschi è altrettanto abile.
I poeti dell’Ottocento italiano avevano dei problemi a usare termini tecnici o legati al quotidiano, giudicandoli troppo prosaici: ecco allora che i cannoni diventano per Prati vacui bronzi e i fucili per Leopardi ferree canne, mentre il busto femminile si trasforma per opera di Vittorio Betteloni in virgineo cinto.
Scendendo a livello terra terra, i cronisti di calcio, per evitare ripetizioni, hanno la tendenza a fare uso di locuzioni che, per i profani, risultano particolarmente criptiche: la squadra biancoscudata, la squadra blucerchiata, i viola, il giocatore granata...
È di questi procedimenti che Guareschi si fa gioco, quando comincia nelle sue prime cronache familiari a evitare accuratamente, come un tabù, di scrivere la parola “moglie”, creando un tormentone che durerà per anni. Parte dalle perifrasi più ovvie e banali (la dolce compagna della mia vita; la signora che mi rese padre), incrociandole con linguaggi settoriali incongrui, come quello amministrativo (la esimia socia della nostra azienda familiare) o ampliandole in maniera tanto inattesa quanto inappuntabile (la dolce signora che mi rese cognato, genero, zio e padre) fino ad arrivare a definizioni tanto involute quanto logicamente indiscutibili (la consorte del padre dei miei figli) in un crescendo che si fa via via più parossistico (La nota e distinta signora che, con la scusa di voler dare pubblicità e diffusione al mio nome e citando all’uopo massime significative quali, ad esempio, «forza Giovannino, la réclame è l’anima del commercio», mi indusse a inserire il mio cognome prima su una pubblicazione di matrimonio, quindi su quella specie di edizione straordinaria recante il titolo di «Albertino»).

Un uso sapiente del tono “sbagliato” suscita il riso: è una tecnica che Guareschi riusciva ad applicare alle situazioni più drammatiche e che, per di più, lo toccavano personalmente: «Mi vado a rivedere l’Austria» dissi a Margherita. Ed era un pezzo che quell’idea mi gironzolava per la testa perché in Austria c’ero già stato un’altra volta, ma non avevo potuto approfondire lo studio dei particolari, sia per il fatto che ero sovrappensiero, sia per il fatto che ero inchiavardato dentro un carro bestiame della ferrovia, assieme all’esercito italiano. (Viaggi ed esplorazioni, in Corrierino delle Famiglie, n. 40, 1949.) Si riferiva alla sua deportazione in Polonia e Germania per essersi rifiutato, come ufficiale dell’esercito italiano, di continuare a combattere a fianco dei tedeschi dopo l’armistizio. Tornò che pesava 46 kg, avendone perso una trentina per strada.
Ma, in campo di concentramento, trova la forza per scherzare anche su questo:
Nella mia carta di riconoscimento c’è la fotografia di un faccione senza ombre, con ogni minima ruga spianata accuratamente dal grasso e dal ritocco. Un faccione deserto, con due stupidi occhi estatici come quelli dei manichini. [...]
Una faccia deserta da “dopo la cura”.
Adesso tutto è cambiato. L’imbottitura di grasso è scomparsa, la pelle si è asciugata, e la mandibola – liberata dall’untuoso cuscinetto del doppio mento – mostra il suo profilo che ha una linea abbastanza decisa e piacevole. Gli zigomi sono riaffiorati dall’epa che li affogava, e movimentano notevolmente le guance.
Il mio volto possiede finalmente delle ombre: gli occhi sono diventati più grandi, si sono disincantati e vivono. [...]
Fui sempre decisamente antipatico a me stesso, e più d’una volta irrisi alla mia goffaggine anche pubblicamente, sui giornali umoristici.
Adesso comincio a diventarmi decisamente simpatico e, quando mi incontro allo specchio, mi sorrido cordialmente:
«Ciao, vecchio! Chi non muore si rivede!».
(Diario clandestino, Milano, Rizzoli, 1949)
L’umorismo presuppone una presa di distanza, il distacco emotivo; il distacco, in questo caso, dalla propria drammatica situazione: si trattava dunque di una strategia di sopravvivenza. “Non muoio neanche se mi ammazzano!” era stato il suo motto durante la prigionia.

Scherzare nei momenti meno indicati era evidentemente più forte di lui, fin dai tempi del ginnasio; così recitano le osservazioni del rettore datate 20 gennaio 1925:
Troppo spiritoso. La sua “verve” è spesso inopportuna. Le sue mancanze sono conseguenza d’irrefrenabili doti umoristiche. Veramente intelligente, ottiene per lo studio, coi minimi mezzi, i massimi risultati.
La nota ufficialmente è del Rettore, ma a stenderla fu il suo professore di Italiano: si chiamava Cesare Zavattini; lo avrebbe chiamato, molti anni dopo, a collaborare al quindicinale umoristico Bertoldo.

Si trattava di una lingua, evidentemente, che non si fermava di fronte a nessuna autorità, proprio a nessuna:
[Don Camillo, rivolto al Crocefisso che lo rimprovera di nascondere in casa un mortaio da 81:]
«Gesù» disse «ci sono delle cianfrusaglie che uno non riesce a buttarle via perché sono dei ricordi. Noi uomini siamo tutti un po’ sentimentali. E poi non è meglio che questa roba sia in casa mia piuttosto che in casa di altri?»
«Don Camillo ha sempre ragione» rispose sorridendo il Cristo. «Fino a quando non farà qualche soperchieria.»
«Per questo non ho paura; ho il miglior consigliere dell’universo» rispose don Camillo. E così il Cristo non seppe più cosa rispondergli.
(da Uomini 2 - mucche 100, racconto n. 20 in Tutto don Camillo.)


Concludo con una mia poesiola dedicata ai rapporti fra Guareschi e la Polonia:

GIOVANNINO GUARESCHI

Nei campi polacchi
rubasti a Sobieski
quei lunghi mustacchi
dai grandi arabeschi.1

Forse era degli avi
che ti ricordavi?2
Per questo li abbini
a due polacchini?3

Mio caro Guareschi,
Giovanni piccin:
quei baffi moreschi
li porta Stalìn!

Se scordi Radetzky,
se scordi Čaikovskij,
mio caro Guareschi,
quei baffi disboschi!


1 - Guareschi si fece crescere i baffi durante la prigionia in Polonia.
2 - Gli antenati di Guareschi sarebbero stati di origine polacca.
3 - Polacchino, polacca o polacchina, la scarpa preferita da Guareschi: uno stivaletto allacciato fin sopra la caviglia.

(La prima parte di questo post si trova qui.)

LETTURE CONSIGLIATE

- Giovannino Guareschi, Tutto don Camillo – Mondo Piccolo, Milano, Rizzoli, Bur, 2003.
Raccolta, curata dai figli Alberto e Carlotta, di tutti i racconti riguardanti don Camillo: due volumi di racconti e un terzo volume di note accuratissime e di commenti che ricostruiscono il contesto storico in cui i racconti nacquero e a cui fanno riferimento.

- Giovannino Guareschi, La famiglia Guareschi – Racconti di una famiglia qualunque 1939-1952, Milano, Rizzoli, 2010.
- Giovannino Guareschi, La famiglia Guareschi – Racconti di una famiglia qualunque 1953-1968,  Milano, Rizzoli, 2011.
Raccolta, curata dai figli Alberto e Carlotta, di tutti i racconti riguardanti la famiglia di Guareschi.


SITI INTERNET

         Sito ufficiale, curato dai figli, con una accurata cronologia della vita dello scrittore.

       Voce su Giovannino Guareschi del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani editore.


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sabato 14 aprile 2012

PER NON DIRE “MOGLIE” - 1


La dolce compagna della mia vita.
La dolce compagna della mia vitaccia.
La compagna della mia triste vita.
L’amabile compagna della mia ex vita.
La gentile compagna del mio triste viaggio su questa squallida terra, e speriamo, soltanto su questa squallida terra.
La dolce compagna dei miei giorni e della mia insonnia.
La dolce compagna dei miei sogni di scapolo e del mio risveglio di coniugato.
La dolce compagna già nominata.

L’esimia signora che divide con me le gioie della vita e mi lascia generosamente tutti i fastidi.
La signora che divide con me le noie della vita e si prende tutto il mio stipendio per usi domestici.
La signora che divide con me il mio nome ma si prende, per necessità domestica, tutto il mio stipendio.
La dolce signora che divide fraternamente il mio appartamento lasciandomi l’intero affitto da pagare.
La mite creatura che divide imparzialmente con me suo figlio ma si prende i nove decimi del mio stipendio.
La esimia signora che divide con me un numeroso Albertino e i pochi proventi delle mie quotidiane aggressioni alla grammatica e alla sintassi.
La dolce signora che, pure essendo dislocata in campagna, accetta di dividere fraternamente il mio stipendio ma si tiene completamente la mia carta annonaria costringendomi a una benefica cura a base di zuppe di verdura e uova al tegame.

La esimia socia della nostra azienda familiare.
La gentile socia della mia malinconica azienda.
La mia distinta con-contribuente.
La dolce amministratrice dei miei beni mobili.
La eccellente amministratrice dei miei ex beni mobili.
La dolce signora dei miei beni mobili e immobili.
La intelligente amministratrice dei miei beni immobili e del mio mobile cuore.
La esimia amministratrice dei miei beni e dei miei mali.
La dolce amministratrice dei miei affetti e dei miei effetti.
La insigne amministratrice delle mie piccole gioie e dei grandi dolori.
La dolce creatura dei miei dolci sogni e della mia malinconica realtà.
La insigne domatrice del mio bilancio.
La insigne amministratrice dei miei disavanzi.
La esimia amministratrice del mio sbilancio.
La esimia amministratrice delle mie disgrazie familiari.
La esimia amministratrice del mio povero stomaco.
La oculata amministratrice dei miei difetti.
La rispettabile amministratrice dei miei nervi.

La dolce signora del mio mezzanino.
La dolce signora del mio quarto piano.
La esimia correligionaria, connazionale, concittadina, e ora coinquilina.
La stimabile attendente a casa.
La dolce utente del mio cognome.
La distinta cittadina che, con la scusa di economizzare spazio, divide il mio letto.
La dolce signora che, accampando strane esigenze tecniche, divide con me il mio letto.
La distinta signora che già da parecchio tempo ha preso l’abitudine di dormire al mio fianco come se io non fossi stato capace per trent’anni di dormire quasi sempre da solo.
La dolce signora che, ogni notte, con la sua lunga camicia amaranto a fiori verdi porta una inconfondibile nota di distinzione nelle due piazze del nostro letto.
La mia vicina di lenzuola.
La distinta coutente del mio letto.
La dolce signora che rallegra il mio modesto appartamento con bambini e considerazioni sul prezzo degli ortaggi.
La simpatica signora che, ogni sera, quando rincaso dall’ufficio, mi chiede addolorata dove diavolo sono stato.
La distinta signora, la quale ogni volta che io mi faccio la barba sospira che io ho un’altra donna.

L’antica fidanzata dell’imposta sul mio celibato.
Quella che fu la titolare del mio cuore di studente.
La dolce signora che fu già la mia dolcissima signorina.

Colei che mi conobbe signorino.
La dolce signora che mi conobbe giovinastro.
La dolce signora che mi conobbe studentastro e non riuscì mai a conoscermi laureato.
La esimia signora che mi conobbe zitello.

La dolce individua che mi fece suo.
La gentile creatura che non mi volle più signorino.
La dolce signora che non mi volle più pulzello.
La donna che sconfisse il mio celibato.
La esimia signora che mi tolse la celibatezza.
La nobile donna che per me sacrificò la nubilanza.
La dolce creatura che mi colse un giorno, fiorellino aulente di celibato in mezzo al prato verde della vita.

La esimia signora che mi sedusse a scopo matrimoniale.
L’esimia signora che seppe indurmi a modificare radicalmente i miei concetti sul matrimonio.
La donna che un giorno disse «sì».
La dolce signora che un giorno mi giurò eterno matrimonio.
La dolce signora che mi rese coniuge.
La dolce signora che mi rese vigilato a vita.
La gentile signora che mi volle sinistrato a vita.
La esimia signora che, non contenta del suo, porta anche il mio nome.
La simpatica signora che porta il suo nome e il mio cognome.
La simpatica creatura che il cielo sparse copiosamente sul mio cammino.
La egregia signora che pedala con me sul tandem che il destino mi ha assegnato.
La dolce signora che un giorno volle essere la mia fidanzata, poi la mia consorte e che ora vorrebbe essere la mia vedova.

La gentile angelessa del mio focolare.
La angelessa della mia stufa.

La dolce signora che mi conobbe benissimo quando io ero ancora signorino e che io conobbi bene, ahimè, soltanto quando non ero più signorino.
La dolce signora che, grazie a una manovra ardita compiuta col favore della nebbia di un febbraio, fece di un signorino un coniugato a vita.
La onorevole cittadina che, per incoraggiare il turismo e lo sviluppo delle ferrovie, volle una volta partire con me in viaggio di nozze.

La dolce signora che – approfittando della mia buona fede – mi fece credere un giorno, per loschi suoi fini personali, di essere la migliore e la più conveniente creatura di sesso femminile esistente sul mercato ancora libera da vincoli matrimoniali.
La dolce signora che, un giorno di febbraio, approfittando della mia distrazione e della mattinata caliginosa, mi condusse all’Altare.
La dolce signora che, approfittando della mia scarsa conoscenza della turbinosa metropoli lombarda, mi indusse a entrare da una porticina dalla quale uscimmo poi io moglio e lei marita.
La dolce signora che, approfittando della mia disattenzione, mentre stavamo camminando per la strada e io avevo intenzione di andare diritto, mi ha fatto girare invece verso la via del municipio.
La dolce signora che, approfittando della mia suggestionabilità, riuscì a farmi dire un sacco di sciocchezze in presenza di impiegati comunali e prelati.

La dolce signora che, una volta, con la scusa di farmi ammirare certi pregevoli affreschi del ‘500, mi indusse a entrare, celibe, in una chiesa per uscirne di lì a poco coniugato a vita.
La distinta creatura – che, con la scusa di farmi rendere conto di quanto sia confortante nei momenti di tristezza entrare nella Casa del buon Dio, mi indusse a inginocchiarmi celibe davanti a un altare per poi rialzarmi coniugato.
La nota e distinta signora che, con la scusa di voler dare pubblicità e diffusione al mio nome e citando all’uopo massime significative quali, ad esempio, «Forza Giovannino, la réclame è l’anima del commercio», mi indusse a inserire il mio cognome prima su una pubblicazione di matrimonio, quindi su quella specie di edizione straordinaria recante il titolo di «Albertino».
La dolce signora che – con la scusa di iniziarmi al solfeggio – mi fece pronunciare quel «sì» famoso.
La giovane donna [che], con la scusa di tutelare il mio avvenire, mi indusse a confessare a un dignitoso signore in veste talare che io ero felice di condurla in matrimonio.
La distinta signora che, con la scusa di fare un piccolo dispetto alla sua amica Maria, mi sposò e ne fece in definitiva uno grossissimo al suo amico Giovannino.
La dolce signora che, con la scusa della sua paura per i cani randagi e per i velocipedastri, ha preordinato le cose in modo che io l’accompagni, vita natural durante, per le strade del mondo.
La dolce signora che, con la scusa di lenire la disoccupazione, mi assunse in qualità di coniuge.
La dolce signora che, con la scusa del matrimonio, mi dorme vicino per scopi suoi personali.
La dolce signora che – allegando la scusa che viaggiando in comitiva si possono realizzare notevoli risparmi – mi indusse a impiantare una famiglia con annesso Albertino.
La dolce signora che, con la scusa di aumentare il decoro della ditta, indusse a procurarmi il piccolo socio Albertino.

La signora che mi rese padre.
La insigne signora che mi rese marito.
La dolce signora che mi rese cognato, genero, zio e padre.
La consorte del padre dei miei figli.
La madre del bastone della nostra vecchiaia.

La delicata creatura che, approfittando della mia giovinezza, mi rese padre.
La dolce signora che, approfittando della mia inesperienza, mi rese padre.
La eccellente signora che, approfittando dello stato di emergenza, rese figlio quell’Albertino già qualche volta nominato.
La dolce signora che, per futili motivi, mi fece occupare militarmente la casa dalla compagine del suo figlioletto.
La dolce signora che, come il famoso cavallo, si insinuò sotto le specie del curioso gingillo nella cerchia delle mie mura domestiche per poi svelare l’insidia di un piccolo invasore tristanzuolo, poppante e urlante.

La insigne coautrice di Albertino.
La distinta comproprietaria di Albertino.
La insigne coutente di Albertino.

La dolce signora che inventò Albertino.
L’autrice di Albertino.
La dolce confezionatrice di Albertino.
La distinta costruttrice di Albertino.
La egregia fabbricatrice di Albertino.
La distinta appaltatrice della fabbrica di Albertino.

La gentile creatura che mi rese utente di Albertino.
La dolce signora che mi imparentò con Albertino.
La gentile signora che rese padre me, e figlio Albertino.
La insigne signora che mi rese padre di tanto Albertino.
La dolce signora che mi rese padre di numerosissimo Albertino.
La eccellente pastoressa del sottoscritto pecorello e del suo agnellino.

La gentile fabbricatrice del mio postero.
La confezionatrice della mia posterità.
La eccellente posteriera.

La distinta signora che divide con me un Albertino solo e centomila urli forsennati al giorno e alla notte.
L’insigne autrice di un Albertino premeditato.
La esimia signora che perpetrò Albertino.
La dolce signora che si macchiò di tanto Albertino.
La insigne confezionatrice del piccolo sciagurato.
L’efferata fabbricatrice del piccolo figuro.
La esimia fabbricatrice del più dannoso Albertino d’Europa.
La dolce signora che mi condannò a un Albertino di rigore.

La esimia creatura di cui sopra.
La già detta personaggia.
La non mai troppo citata signora.
La esimia signora di qui tanto ho già parlato.
La insigne signora di cui già troppo si è parlato.

Ecco come l’autore di queste perifrasi descrive se stesso:

Quando fui inventato io (1-5-1908) la pianura padana esisteva già, quindi, sin dal mio primo vagito, io fui e sono padano e ciclista.
Oggi grasso, non più signorino e padre di numeroso Albertino, una volta fui agile come un gazzello, spensierato e zitello.
Oggi sbracalato, discinto, scarmigliato e padre di numeroso Albertino, un giorno anche io fui zitello, ben pettinato e pulitino in tutta la persona e portai calzoni con piega e ghette nocciola su scarpe di vernice nera.
Giovannino, in fondo, è buono e il suo cuore è tenero come quello di un libellulo e gentile come quello di un farfallo.

Avete capito chi è?
Ma mi accorgo di aver consumato tutto lo spazio: ci rivediamo fra pochi giorni.

(La seconda parte di questo post si trova qui.)


 
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