martedì 23 aprile 2013

ALESSANDRO MANZONI E GUIDO DA VERONA, ovvero COME SI CHIAMANO GLI ABITANTI DI LECCO?







GUIDO ABRAMO VERONA

(Saliceto Panaro, comune di Modena, 7 maggio 1881 – Milano, 5 aprile 1939)

in arte (e in seguito anche all’anagrafe)

GUIDO DA VERONA



(Caricatura)





Nella vita e nell’arte l’humour è forse il più difficile fra i commenti alle cose umane. Desidero conservare integro il mio diritto a sorridere di me stesso e degli altri – anzi di me stesso ancor più che degli altri. (Guido Da Verona, Lettera d’amore alle sartine d’Italia, 1924)



Nella sua parodia dei Promessi sposi Guido da Verona rispetta l’impianto generale dell’opera, nei personaggi, negli snodi narrativi, negli ambienti, applicandovi però i procedimenti:

a – dell’abbassamento: per esempio la disputa che porta il futuro padre Cristoforo a commettere un assassinio rimane originata da un questione di precedenza, ma fra due cani!

b – del rovesciamento:



         Fatto sta che nel Lazzaretto di Milano i forestieri e i senza tetto si trovavano benissimo. Camere ben aerate, servizio inappuntabile, cucina scelta, riscaldamento centrale, bar e salone di lettura aperti a tutte le ore, una orchestrina di tango e di jazz fatta venire espressamente d'oltre Atlantico, per emulare quella, già un po’ sfessata, di Bianco Bacicia. Tutti coloro che potevano venir ammessi al Lazzaretto Palace vi si trovavano così bene, da non volerne più uscire che morti. (Da Verona, XXVIII)

        

         c – dell’attualizzazione:



– Carneade! Chi era costui? — ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone [...]. (Manzoni,VIII)



– Benedetto Croce?... Chi era costui? - ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone [...]. (Da Verona,VIII)



E così don Rodrigo gira in Chrysler, padre Cristoforo gioca in borsa, ecc. Una attualizzazione che ha intenti talvolta di denuncia (in questo caso della speculazione edilizia):



Nel quartiere di Porta Comasina stavasi ultimando un edilizio di cemento armato, già venduto per appartamenti prima d’essere costruito, e perciò compiuto in 22 giorni; ma non appena vi fu entrata a dimora la portinaia, prima inquilina, lo stabile giudicò il suo peso eccessivo, e risolse di abbattersi fino alle fondamenta. (Da Verona, XXXII)



Il procedimento dell’abbassamento investe naturalmente anche i personaggi: don Abbondio, per esempio, non è solo pavido (con la “p”), ma anche avido (senza la “p”): trova inadeguata la bustarella passatagli dai bravi per rinunciare a celebrare il matrimonio di Renzo e Lucia.

Ma l’aspetto su cui Da Verona insiste di più– com’era ovvio per chi ne conosceva la produzione letteraria precedente – è quello sessuale. Lucia diventa così un bel pezzo di figliola, del tutto disinibita, che non disdegna le attenzioni di don Rodrigo, che risveglia – concedendogli le sue grazie – la sessualità sopita dell’Innominato e che si prostituisce in casa di donna Prassede. Perfino la figura della Monaca di Monza – già scabrosa di suo – viene intensificata da questo punto di vista, trasformandosi in una precoce ninfomane non immune da tendenze saffiche. Non ne rimangono esenti nemmeno i sacerdoti: don Abbondio vive con Perpetua more uxorio e Renzo, in fuga da Milano in vesti femminili, subisce le avances di un prete incontrato per strada; perfino Federigo Borromeo fruga nel seno di Lucia (sia pure con intendimenti epistolari – per recuperare una lettera – chiosa ironicamente Da Verona).



Ma la parodia di Guido Da Verona non si limita ai contenuti: investe anche gli aspetti linguistici. Esaminiamoli.

a – L’uso manzoniano dei suffissi, che agli occhi nostri fa tanto telegramma, viene irriso facendoli proliferare all’eccesso e oltre i limiti del lecito:



         Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portatovi dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto; in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi.

         [...]

         I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron subito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. (Manzoni, XIII)



Renzo, questa volta, si trovava nel forte del tumulto, non già portàtovici dalla piena, ma cacciàtovicisi deliberatamente. Poco avvezzo agli svaghi ed agli spassi che seralmente offre una grande città come Milano, voleva in tutte le cose ficcàrvicisi dentro col naso, e n’ebbe, quella sera per più del suo gradimento.

I magistrati, ch’ebbero per primi l’avviso di quel tumulto, mentre stavano come al solito giocando al tressette o allo scopone, se pur non stavano in quel mentre consumando fellonia più grande, quali mezzo scamiciati e smutandati, quali con l’asso di coppe o il sette di briscola in mano, si precipitaron ai telefoni per radiofonoconsultàrvicisi l’un l’altro. Ma poiché parlavano tutti insieme da punti opposti della città, ed occupavamo tutti i privati e pubblici telefoni della rete inurbana, produssero una interferenza d’onda, la quale fece loro udire un pezzo della Carmen.

[...]

Questo fece con doppio fine; vuoi per distogliere l’attenzione della folla dalla casa del Vicario, vuoi perché è supremamente giusto che dove sónoci i pompieri siàvici almeno un incendio. (Da Verona, XIII)





....Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s’addormentò, e cominciò a fare i più brutti e arruffati sogni del mondo. E d’uno in un altro, gli parve di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo specialmente; e n’era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da’ rotti si vedevano macchie e bubboni. «Largo canaglia!» gli pareva di gridare, guardando alla porta, ch’era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que’ sozzi corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di quegl’insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d’avere inteso; anzi gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo. Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca, gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo; ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta più forte. Strepitava, era tutt’affannato, e voleva gridar più forte; quando gli parve che tutti que’ visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso, liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su tutto l’uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando insieme la mano, nell’attitudine appunto che aveva presa in quella sala a terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand’urlo; e si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. (Manzoni, XXXIII)



Gli pareva di trovarsi in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovàrvicisi, che non sapeva come fossevici recato, perché in chiesa, dopo la cresima e la prima comunione, egli non éravici mai più tornato. Guardava i circostanti: eran tutti visi gialli, distrutti, con cert’occhi incantati, abbacinati, con le labbra spenzolate, come se questa chiesa si trovasse in Cina, e dentro la chiesa fosse una fumeria d’oppio. Egli, gridava: «Largo canaglia!», tentando insieme di sfoderare la spada. Ma poiché la spada, stando in letto, non l’aveva, e il «Largo canaglia!» lo gridava in milanese, lingua che non è conosciuta nel Celeste Impero, quei lazzaroni, anziché scostarsi, gli si serràvanvicisi addosso, sempre più. Anzi uno, o forse una (chi poteva ben distinguere i sessi, fra quei Cinesi che avevan tutti il codino) ebbe l’imprudenza di mettergli una mano, oppure un gomito, sotto il cuore, sotto l’ombilico, nella piegatura dell’inguine, dove, ad un incirca, egli sentivavicisi una puntura dolorosa, e come pesante. E se si torceva per veder diliberarsene, sùbito un nuovo non so che veniva a puntàrglivicisi nel luogo medesimo. Quelle cinesine hanno certi mezzi per stuzzicare gli uomini, che in Europa son dei tutto sconosciuti. Infuriato, volle metter mano alla spada: ma poiché spade, come già dicemmo, stando in letto non ne aveva, giunse nondimeno ad afferrare qualche altro arnese. Le nostre più accurate indagini non son riuscite ad appurare quale arnese fosse. In quel momento gli parve che tutti quei Cinesi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui; vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non che di convesso, liscio e luccicante, che sembrava il cranio d’un cappuccino, ma era probabilmente il globo della lampada di Murano appesa nel mezzo della stanza. A tal vista don Rodrigo scoppiò in un grand’urlo, e si destò.

Impiegato un certo quel tempo, per rassicurarsi che egli era ben nella sua camera, e ben nel suo letto, si raccapezzò che tutto era stato un sogno, tutto era sparito; tutto, fuorché una cosa: quel dolore al di sotto dell’ombelico. Esitò qualche momento prima di guardar la parte dove aveva il dolore: finalmente la scoprì, ci diédevici un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. (Da Verona, XXXIII)



            È una proliferazione tumorale di suffissi che ricompare più volte nel corso del romanzo; ma l’esempio insuperabile rimane questo:



Quando già la Chrysler stava per giungere nei pressi della Santa, don Rodrigo rammentossi ch’egli erasi dimenticatosi d’impartire un certo ordine ad altri suoi bravi ch’erano rimasti colassù nel Castello. (Da Verona, XXV)



b – La tendenza del Manzoni alle frasi complesse, dense di ramificazioni (frasi che fanno desiderare una mappa per non perdervisi – o, direbbe Da Verona, perdervicisi) viene amplificata fino all’inverosimile

            b1 – moltiplicando le proposizioni:



La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudicerìa, giallognola, biancastra, sparsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso e più generale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ragionevole l'attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, né il primo né l'ultimo di tal genere. (Manzoni, XXXI)



Una terza ipotesi, che noi riferiamo per semplice dovere di cronaca, è questa: si trattasse di gente che, durante la sera e la notte, contrariata dalla straordinaria mancanza di comodi luoghi vespasiani venuta a verificarsi nella città di Milano con l’abolizione di quelli che un tempo onoravano gli angoli di quasi tutte le strade, e conseguente apertura di rifugi sotterranei, che però erano scarsi, a distanza di alcuni chilometri l’un dall’altro, sicché, se pur riuscisse al paziente discoprirli, il più delle fiate gli avveniva di trovarli, dopo il calar del sole, ermeticamente chiusi; per il qual modo ben era possibile, nella dotta e opulenta città di Milano, soddisfare ai propri bisogni corporali se non entrando ad ascoltare il concerto in qualche birreria, - è dunque nostra opinione potesse trattarsi di gente che, per deplorazione d’un simile stato di cose, e per fare una grande manifestazione pubblica agli occhi del Gran Cancelliere e del successore di don Gonzalo, avesse prescelto i portoni, i muri, le saracinesche, gli zoccoli delle case patrizie e di commercio, a far l’uffizio dei luoghi ad hoc, che veramente scarseggiavano, affinché ognuno intendesse la sovrana urgenza e necessità nella quale venivano a trovarsi i milanesi di veder ripristinate le lor vetuste edicole, ed insieme fosse palese come, nella gran febbre di ricostruzione che tutta scoteva la città rinnovellantesi, fosser dimenticati que’ soli edifizi, dei quali, da un sesso e dall’altro, da secolari come da monaci, più tempestiva era sentita l’urgenza. (Da Verona, XXXI) È un periodo unico: provate un po’ a leggerlo senza tirare il fiato! L’allievo ha superato il maestro.



            b2 – interpolando il testo originale mediante la proliferazione degli aggettivi:



         Non era mai spiovuto; ma, a un certo tempo, da diluvio era diventata pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, ugual uguale: i nuvoli alti e radi stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d’intorno. (Manzoni, XXXVII)



Mentre parlavano, in quel di Pasturo non era mai spiovuto. Ma, ad un certo punto, da diluvio era divenuta pioggia, e poi un’acquerugiola fine fine, cheta cheta, uguale uguale, mogia mogia, lene lene, quietina quietina; i nuvoli alti e radi, quali oscuri, quali meno oscuri, quali frastagliati, quali un po’ meno frastagliati, e quali niente del tutto, stendevano un velo non interrotto, ma leggiero e diafano, trasparente e permeabile, morbido e vaporoso, perlaceo e madreperlaceo; e il lume del crepuscolo fece vedere a Renzo il paese d'intorno. (Da Verona, XXXVII)



L’interpolazione viene usata anche per intensificare l’ironia già presente nel testo originale:



            Della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie raccolte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualche scorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum, del Cardano al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare; come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura. (Manzoni, XXVII)



            Delle scienze naturali s’era fatto un passatempo più che uno studio. L’opere stesse di Aristotile e di Plinio su questa materia, gli parevan nulla in confronto dei Manuali Hoepli. Tuttavia, con qualche scorsa data alla Magia Naturale del Porta (bisnonno di Carlo Porta), alle storie lapidum, animalium, plantarum del Cardano (figlio di quel Cardano del quale è detto sopra), al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, di Alberto Magno (genero di Carlo Magno), a qualche altra opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando delle virtù più mirabili dell’Ischirogeno o dell’Idrolitina; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene e dell’unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare (quando il fuoco è spento); come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave (sopra tutto se questa nave riceve un siluro o va contro uno scoglio); come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie (sempreché vi sia un banchiere che ne paghi il conto al gioielliere); come il camaleonte si cibi d’aria (quando non trova nessuno che lo inviti a pranzo); come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar dei secoli si formi il cristallo (e il cristallo diventi una bottiglia od un’invetriata, secondo l’uso che se ne vuol fare); e altri de’ più meravigliosi segreti della natura. (Da Verona, XXVII)



o per aggiungere l’ironia dove non c’è:



         Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo. (Manzoni, XXVII)



Da questo, il Manoscritto passa poi alle lettere amene; ma, appunto perché amene, noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa rassegna (ma le pare:... non sia così modesto! continui pure, la prego!...), anzi a temere di non aver giù buscato il titolo di copiator servile per noi (oh, ma cosa dice!...) e quello di seccatore, da suddividersi con l’Anonimo sullodato, (che barba!...), per averlo bonariamente seguito sin qui, in cosa estranea al racconto principale, per sfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo.

Però, lasciando scritto quel ch’è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente (ah, che peccato!...) e provvederemo a rimetterci in istrada: tanto più che n’abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de' nostri personaggi (ne sia lodato il cielo!), e uno più lungo ancora prima di trovar quelli, ai fatti dei quali certamente il lettore s’interessa di più (ma lei scherza!...), se a qualche cosa s’interessa in tutto questo, (creda, signor Anonimo: a niente, proprio a niente!...). (Da Verona, XXVII)



c – In altri casi il testo viene invece tagliato; è il caso di una pagina celeberrima, che un tempo si imparava a memoria, e che proprio per questo può essere ironicamente (o perfidamente?) tagliata (ma la memoria, si sa, è traditora: e così va a finire che l’Addio monti si ibrida con l’Otello scritto da Arrigo Boito per Giuseppe Verdi):



            Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messi gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. (Manzoni, VIII)



OTELLO

[...]

Ora e per sempre addio sante memorie,

addio, sublimi incanti del pensier!

Addio schiere fulgenti, addio vittorie,

dardi volanti e volanti corsier!

Addio, vessillo trionfale e pio,

e diane squillanti in sul mattin!

Clamori e canti di battaglia, addio!

Della gloria d’Otello è questo il fin.

(A. Boito, Otello, atto secondo, scena quinta)



Addio monti sorgenti dall'acque ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi... eccetera; torrenti de’ quali... eccetera, ville sparse e biancheggianti sul pendio, come branchi... eccetera; addio casa natia, dove, sedando, con un pensiero... eccetera; addio, casa ancora straniera, sogguardata non senza rossore; addio, chiesa dove l’animo tornò tante volte sereno, addio, per sempre addio, sante memorie, e volanti corsieri!... (Da Verona, VIII)



d – Il ricorso manzoniano ai paragoni è ripreso, ma viene immediatamente vanificato dalla logica impeccabile ma risibile di quelli daveroniani:



Lucia divenne rossa come le nespole del Giappone, che sono gialle, ma che si posson dipingere di rosso.



Questa, per il piacere, divenne tutta rossa come le olive in iscatola; - le quali sono verdi, o anche nere, ma si possono dipingere di rosso. (Da Verona, XXXVIII)



e – La lingua viene usata ludicamente

            e1 – prendendo alla lettera i modi di dire, con esiti surreali:



[Renzo] vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: «son qui». Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. (Manzoni, XVII)



I due cugini, che da un pezzo non si vedevano, (anzi, noi crediamo che non si fossero mai visti), si voltano simultaneamente, si affisan gli occhi negli occhi, poi fanno l’atto di corrersi incontro e di buttarsi le braccia al collo. Ma, per far più presto ancora, si staccano addirittura le braccia, e se le buttano al collo scambievolmente. Poi ognuno riprende le proprie, e si mettono a ragionar dei fatti loro. (Da Verona, XVII)



Senza por tempo frammezzo, [don Rodrigo] diede ordine al Griso di far marcia indietro. Questi interpretò l’ordine alla lettera, e rifece tutta la strada a marcia indietro, dalla Santa fino al castello del signor don Rodrigo. (Da Verona, XXV)



e2 – utilizzando comuni modi di dire, ma con slittamenti di significato; qui “rodersi” (il fegato) diventa, mediante i tipici procedimenti parodici dell’abbassamento e dell’amplificazione, “rodersi le unghie” (prima le proprie e dopo le altrui):



Don Rodrigo, fulminato dalla notizia impensata, cioè che l’Innominato e il Cardinale si fosser messi d’accordo per carpirgli quel bel tocco di ragazza, se ne stette rintanato nel suo pallazzotto [sic], solo co’ suoi bravi, a rodersi le unghie per ben due giorni. Ma poiché le sue sole unghie non bastavano per una rosicchiatura protratta così a lungo, il secondo giorno egli si accinse a rodere quelle de’ suoi bravi, e quando nessuno nel castello ebbe più unghie, il signor don Rodrigo decise anch’egli di partir per Milano.  (Da Verona, XXV)



            e3 – variando espressioni consolidate:



[Lucia, colta in deshabillé da don Abbondio] – [...] Non stia a guardare come son svestita... vede bene che non mi aspettavo all’onore di una sua visita. (Da Verona, XXIV)



[Lucia in casa di donna Prassede - dove si prostituisce, a Renzo] – [...] Voi mi trovate ora sotto questi panni... o meglio, senza questi panni; ma... (Da Verona, XXIV)





            Ma Guido Da Verona va oltre la parodia, abbandonandosi al piacere dell’invenzione linguistica:



Renzo trasse fuori il suo albero ginecologico (che i mal parlanti chiamano genealogico). (Guido Da Verona, XXXVII)



In questo senso, il massimo viene raggiunto nell’uso degli etnici (cioè i nomi o aggettivi che indicano l’appartenenza a una popolazione):



Monza:

monzese, monzina, monzasca o monzigiana che dir si voglia (IX)



Bergamo:

i bergamini, bergamesi, bergamotti, o bergamigiani che dir si voglia (X)

gli ameni paeselli del leccoburgo e del bergamigiano (XXV)

(che danno perfino origine a un’imprecazione: n’ho fin sopra i bergamicoli di portar sottana, XVII)



Brianza:

Era però sempre un bel tocco di brianzolarda (XXXVIII)



Casale / Casalpusterlengo / Casamicciola:

i casalesi, casalgoti o casalpusterlenghi che dir si voglia (XXVII)

i casamicciolesi, casalernitani, o casalmamalucchi che dir si voglia (XXVII)

una bella casalpusterlenghese (XXVII)

un casalpusterlenghese in più (XXVII)

i casalesi, casalinghi o casigliani che dir si voglia (XVIII)



Milano:

milanovingi (XV)

milanesardi (XVII)

i signori milanesardi (XXXIII)

i milanesardi (XXXIV)

altri milanesardi (XXXIV)

chi è nato nel milanesasco e vuol vivere nel bergaminese (XVII)

le avventure milanesi e bergamigiane del famigerato Renzo (XXVII)

e addirittura (udite, udite!)

un milanese (XVII)

ambrosiani (XXV)



Ma questo è niente in confronto agli innumerevoli e fantasiosi etnici degli abitanti di Lecco, un vero e proprio tormentone che percorre tutto il romanzo:



Leccobardi (I)

il lecchese, o lecchino, o lecchigiano che dir si voglia (IX)

nel leccoburghese (IX)

leccoburghese (IX)

i leccurdi, leccofanti, o leccobalesi che dir si voglia (XI)

al lecchese, leccardo, leccovinzio o leccofante che dir si voglia (XII)

            il leccofante (XII)

            il buon leccoburghese (XII)

lecchigiano, leccardo, leccovingio o leccodopolitano (XIV)

lecchigiano, leccovingio, leccoburghese o leccofante che dir si voglia (XIV)

            leccodopolitano (XV)

            leccodopolitani (XV)

            leccovingioto (XV)

            leccobardo (XV)

            leccorioto (XV)

lecchirioto, lecchígero, o leccheronzolese che dir si voglia (XVI)

            leccobarda (XV)

            chi è nato nel milanesasco e vuol vivere nel bergaminese (XVII)

i leccovingi, leccoslovacchi o leccobardi che dir si voglia (XXV)

i leccurdi lecconesi, o leccomanni che dir si voglia (XXV)

i leccomirditi, leccofanti o leccoburghesi che dir si voglia (XXV)

i leccóbrogi o leccomanciuri (XXV)

lecchese, leccurdo o leccomitano che dir si voglia (XXV)

            gli ameni paeselli del leccoburgo e del bergamigiano (XXV)

i leccovingi, leccofanti, leccoslavi o leccoslovacchi che dir si voglia (XXV)

lecchigiardi o leccoslovacchi che dir si voglia (XIX)

quel montuoso territorio che, dal nome de’ suoi abitanti, i Leccobardi, giustamente vien detto Leccobardìa o Leccoburghese (XXXIII)

una blasfemia leccobarda (XXXIII)

in quel ciel di Leccobardìa (XXXIII)

da buon leccoburghese (XXXIV)

il leccobardo (XXXV)

il leccobardo (XXXVI)

il valente giovin leccobardo (XXXVII)

in Leccobardìa (XXXVIII)

l’unione delle due grandi stirpi leccobarde (XXXVIII)

una semplice donna leccobarda (XXXVIII)





            Ed eccoci giunti, miei diletti venticinque lettori, alla fine della storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, a chi l’ha raccomodata, a chi l’ha parodiata, e anche un pochino al sottoscritto che ve l’ha raccontata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.



La prima parte del post su Alessandro Manzoni e Guido Da Verona di trova qui.





SITI INTERNET



Per chi desiderasse approfondire l’argomento, consiglio la lettura dei seguenti saggi:



Giuseppe Sergio, “I Promessi Sposi” di Guido Da Verona: appunti sulla lingua e sullo stile, in




Massimo Laganà, Guido Da Verona e la parodia de “I Promessi Sposi”, in






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mercoledì 3 aprile 2013

ALESSANDRO MANZONI E GUIDO DA VERONA, ovvero I PROMESSII SPOSII – 4 (QUELLI PROIBITI)



GUIDO ABRAMO VERONA
(Saliceto Panaro, comune di Modena, 7 maggio 1881 – Milano, 5 aprile 1939)
in arte (e in seguito anche all’anagrafe)
GUIDO DA VERONA

(Copertina della prima edizione della parodia manzoniana)


Il 20 gennaio 1930 un distinto signore sta percorrendo via Bernardo Luini, a Milano, quando viene avvicinato da due giovani.
– Lei è Guido Da Verona? – gli chiede uno.
– Sì. –
L’altro, alle sue spalle, gli sferra un pugno all’orecchio. L’aggredito, alzando le braccia, cerca di difendersi dai pugni e dagli schiaffi; accorre gente e i due giovinastri fuggono.
Guido Da Verona ritorna alla Casa del Fascio, in Via Nirone – dove era appena stato per tentare, inutilmente, di farsi ricevere dal segretario, Luigi Franco Cottini – per denunciare l’aggressione; ma gli viene risposto che l’avvocato Cottini è già andato via.

Guido Da Verona era uno degli scrittori italiani più noti dell’epoca. Nel 1927 il totale delle vendite dei suoi libri ammontava a 1.250.000 copie (dato parziale, perché non include le copie vendute di altri 8 libri pubblicati dopo il 1922). Era uno degli scrittori più letti d’Italia e uno dei più pagati d’Europa, tanto da potersi permettere di fissare la sua residenza in un albergo: il Cavour di Milano; lo aveva abbandonato solo per trasferirsi nell’antico castello, con tenuta, di Intimiano (Como), acquistato per dedicarsi a una delle sue passioni: i cavalli. Nel 1919 l’editore Bemporad gli aveva fatto avere un assegno di 1.000.000 di lire per metterlo sotto contratto: all’epoca assegni di quell’importo li riceveva solo il signor Bonaventura! (Per i curiosi: 1.450.000 € attuali; e si trattava solo di un anticipo.) (Per chi non ci crede: potete rifare il calcolo qui.)
Definito sprezzantemente il D’Annunzio delle dattilografe e delle manicure (Adriano Tilgher), Guido Da Verona era tanto disprezzato dalla critica letteraria, quanto amato dai lettori comuni, che faceva sognare proponendo loro un irraggiungibile mondo fatto di ricchi aristocratici, luoghi esotici e passioni peccaminose; un mondo che – lui sì – poteva permettersi di frequentare. Era un emulo di D’Annunzio che ne riproponeva stile e temi, adattandoli e rendendoli palatabili a un pubblico culturalmente poco provveduto. Un emulo che però vendeva più del suo modello e che ebbe pure la soddisfazione di vedersi plagiato dal maestro: la prima parte della tragedia – scritta in francese – Il caprifoglio, 1913, di Gabriele D’Annunzio, assomiglia al romanzo La Vita comincia domani, 1912, di Guido Da Verona.
La predilezione di Guido Da Verona per la narrazione osée lo porta al limite della blasfemia in Sciogli la treccia Maria Maddalena (1920), dove la protagonista, un’inglese all’apparenza molto vissuta, è in realtà ancora vergine, nonostante le insidie di un diacono e di una istitutrice. Scoprirà, grazie a un uomo di mondo, le gioie del sesso sano solo a... Lourdes (miracolo!). È troppo: il Sant’Uffizio mette all’Indice tutti i suoi libri.

Ma torniamo all’aggressione del 1930. Il fattaccio è il culmine di una campagna contro l’ultimo romanzo, appena pubblicato, di Guido Da Verona: I promessi sposi. Sì, avete letto bene: I promessi sposi, di Alessandro Manzoni e Guido Da Verona, come recita il sottotitolo. Con tanto di doppio ritratto in cornici ovali: Manzoni a destra, Da Verona con uno dei suoi cagnolini a sinistra.
Fare una parodia del padre linguistico della patria e del più grande romanziere cattolico italiano, quando il governo fascista aveva appena firmato il Concordato con la Chiesa, non era stata una buona idea: era stata una enorme gaffe. Da Verona si ritrova tutti contro: il Partito (nonostante lui fosse un fascista convinto), la Chiesa, la critica letteraria e, naturalmente, gli eredi di don Lisander.
Le critiche si appuntano sui contenuti blasfemi (una profanazione letteraria, secondo il cardinale di Pisa, Pietro Maffi) e antitaliani (una continua beffa al film italiano, alla politica demografica, alla Fiera campionaria, alle sigarette di stato, alla quota 90, Cornelio di Marzio, Critica Fascista, gennaio 1930), nonché sulla mancanza di rispetto nei confronti di un padre spirituale della patria (truffa letteraria goffa, puerile, irrispettosa e scurrile, Enrico Manzoni, nipote dello scrittore).
L’unico a toccare l’aspetto letterario è Adriano Tilgher, turbato da quello che è l’arbitrio assoluto, l’insensatezza della parodia daveroniana [...] C’è la stessa coerenza che si riscontra nelle filastrocche che recita Petrolini quando fa Fortunello. Lì si ride perché c’è Petrolini. Qui Petrolini non c’è. (Il popolo di Roma, 8 gennaio 1930.) Incoerente? Vero, ma si tratta di un divertissement, e ai divertissements non si chiede necessariamente la coerenza. Manca il genio linguistico di Petrolini? Falso: ci sono momenti di invenzione linguistica deliziosi, a mio parere; ma di questo parleremo più avanti.
Solo Marco Rambaldi ha il coraggio di difenderlo, sostenendo che I promessi sposi, grazie a Da Verona entrano nella parodia, e cioè definitivamente nella storia [...] No, Guido non ha arrecato ingiuria alla maestà di don Lisander per tre motivi. Anzitutto perché non era possibile; poi perché non ci aveva mai pensato e terzo perché Da Verona ha una sua dignità artistica che lo stesso dannato libro recente nella sua arguzia ardita ma vivida conferma. (La Stampa, 31 gennaio 1930).
Qualcuno passa alle vie di fatto: l’8 gennaio 1930 una quindicina di studenti del Guf (Gruppo Universitario Fascista) impone al direttore della libreria dell’Unitas (la casa editrice), sita in Galleria Vittorio Emanuele a Milano, di togliere il libro dalla vetrina; vengono dispersi dalla polizia. La protesta, con un numero maggiore di facinorosi, si ripete il giorno dopo: tre di loro vengono portati in questura.
Alla casa editrice viene imposto prima di cambiare la copertina del libro (su richiesta di Enrico Manzoni), poi di ritirarlo dalla circolazione.
Guido Da Verona viene sospeso dall’albo dei pubblicisti lombardi e gli saltano un paio di contratti editoriali.
Nel 1932 si produce nel suo ultimo exploit: in crisi economica, o di ispirazione – forse per questo motivo era passato alla parodia, meditando di dedicarsi anche a Dante, Molière e Collodi – nel 1932 ricicla un vecchio romanzo (La mia vita in un raggio di sole, 1922), smembrandone le tre vicende e ricavandone tre ‘nuovi’ romanzi: Il pazzo di Cadalaòr, Viaggio alla Mecca e Sarah dagli occhi di smeraldo. È una chiara operazione commerciale, coronata dal successo: il pubblico non l’ha abbandonato. A questi aggiunge un nuovo romanzo (la Canzone di ieri e di domani, continuazione della Canzone di sempre e di mai, 1931) e una raccolta di racconti (L’assassino dell’albero antico). Cinque libri in un solo anno!
            Ma è l’ultimo fuoco d’artificio: il suo romanzo successivo (Patire fino alla sete) viene sottoposto a un umiliante editing preventivo, per smussarne le punte scandalose (lo scrittore è segnato dallo scandalo e la casa editrice a cui viene proposto – Vitagliano? – non vuole correre rischi) ma, nonostante questo, non sarà mai pubblicato. Nomen omen: Vitagliano = vi tagliano.
            Guido Da Verona, che aveva sperperato tanti dei suoi guadagni sul tavolo da gioco, scrive Il trattato delle possibilità impossibili con l’arte del gioco (1934): ma riciclarsi da romanziere a esperto di teoria della probabilità non può essere una scommessa vincente: il libro non ha successo.
            Colui che era stato uno degli scrittori più letti e più pagati d’Europa camperà vendendo alla spicciolata le sue proprietà e con i proventi modesti di qualche collaborazione giornalistica.

Ma passiamo all’opera. Ringrazio la carissima amica, tanto brava quanto schiva, che me ne ha preparato un riassunto, esigendo però che non si faccia il suo nome.


Guido Da Verona
I PROMESSI SPOSI: la trama
a cura della bella Innominata

1 – Don Abbondio è atteso lungo la strada da due bravi, mandati dal signorotto locale don Rodrigo, che gli intimano di non celebrare il matrimonio fra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, previsto per il giorno successivo, compensandolo preventivamente per l’obbedienza con una regalìa più modesta di quella che il parroco, e la sua governante – nonché amante – Perpetua, si sarebbero aspettati.

2 – A Renzo, che si presenta puntualmente il mattino dopo, don Abbondio raccomanda di rinviare il matrimonio per chiarire voci inquietanti che circolano riguardo alle opinioni di Lucia in materia di fedeltà coniugale. Perpetua tuttavia spiattella al giovane la verità, al che Renzo s’infuria con il prete, reo ai suoi occhi di gestire in proprio le rendite dei favori concessi dalle ragazze del paese ai ricchi di fuori, mentre semmai la partecipazione agli utili spetterebbe ai legittimi mariti o fidanzati. Per il momento, comunque, si rassegna a tornare dalla promessa sposa a mani vuote.

3 – Lucia rivela al fidanzato e alla madre Agnese che già da qualche tempo don Rodrigo la corteggia assiduamente, offrendole passaggi in auto di ritorno dalla filanda in cui lavora e profondendosi in complimenti e parole d’amore. Il signorotto però difetta d’intraprendenza; forse se la ragazza fosse sposata la sua passione si accenderebbe ulteriormente, promettendo di diventare più vantaggiosa. Urge perciò il matrimonio. Agnese spedisce Renzo a Lecco, per un costoso quanto inutile consulto con l’avvocato Azzeccagarbugli, e manda a chiamare dal convento della vicina Pescarenico padre Cristoforo, confessore affezionato della madre e soprattutto della figlia.

4 – Viene narrata la storia di padre Cristoforo, già per il mondo Lodovico, diventato frate dopo che in gioventù aveva accidentalmente provocato la morte di un gentiluomo col quale stava litigando a proposito di una questione di precedenza stradale. Il nome assunto con gli ordini dal neofrate rappresenta un omaggio al bassotto a motivo del quale era iniziata la rissa fatale, cane che lo accompagnava ovunque, ma non aveva potuto seguirlo in convento.

5-6  – Padre Cristoforo (molto popolare tra i fedeli del territorio per la sua abilità nel gioco in borsa, oltre che per la reputazione di sant’uomo) si reca nel palazzo di don Rodrigo con l’intenzione di convincerlo a smettere di ostacolare il matrimonio. Il padrone di casa suggerisce che la ragazza insidiata – della quale non viene fatto il nome – si affidi alla sua protezione. Dinanzi al rifiuto sdegnoso e bellicoso del frate, gli sguinzaglia contro tutta la servitù e gli sgherri a portata di mano, costringendolo alla fuga, anche se uno degli assalitori ha il tempo di promettergli segretamente il suo aiuto.
A casa di Lucia, intanto, Agnese ventila la proposta di costringere con la forza don Abbondio a sancire il matrimonio.

7-8 – Il frate torna dalle protette e, come prova del successo della sua missione, riferisce, infiorandole largamente, le generose offerte di don Rodrigo. Lucia sarebbe tutt’altro che restia ad accoglierle, ma si sottomette all’autorità della madre e del fidanzato e si presta al tranello del matrimonio a sorpresa, che però contribuisce a mandare a monte non pronunciando la formula di rito necessaria a renderlo valido.
Nel frattempo don Rodrigo ha mandato i suoi a rapire Lucia, ma la casa è vuota, dato che tutti si trovano in canonica proprio in quel momento.
La movimentata serata si conclude con la fuga dei fidanzati e di Agnese, organizzata da padre Cristoforo. I tre lasciano il paese navigando sul lago di Como, e Lucia piange, più che nel dare l’ addio ai monti sorgenti dall’acque, al pensiero di rinunciare al benessere promessole dal signorotto per seguire la sorte di uno spiantato come Renzo.

9-10 – I fuggiaschi raggiungono l’esotica città di Monza e prendono alloggio nell’albergo più lussuoso, che però si rivela decisamente troppo caro. Dunque Lucia e Agnese si trasferiscono nel convento della Monaca di Monza, noto per la dissolutezza dei costumi delle sue occupanti e dunque luogo adatto all’addestramento dell’ancora troppo ingenua Lucia alle future avventure milanesi. Renzo intanto, dopo essersi intrattenuto con una prostituta del luogo, si presume abbia preso a sua volta la via di Milano, dove è stato indirizzato da padre Cristoforo a un suo collega frate.
La Monaca, al secolo Gertrude, è una dei molteplici figli del principe di Monza, la cui consorte si era sempre distinta tanto per la varietà degli adultèri quanto per la prolificità. Fin da piccolissima Gertrude segue l’esempio materno, fuori e poi dentro il convento, ed è perciò a buon diritto obbedita e rispettata dalle altre monache, che si sforzano di seguire il suo esempio.

11 – Don Rodrigo, venuto a conoscenza del fallito rapimento e della fuga di Lucia, si ripromette di risolvere in breve il contrattempo.

12 – Arrivato a Milano, Renzo è subito frastornato dal movimento vorticoso della grande città, messa ancor più in agitazione dall'incombere della carestia, che è una delle conseguenze della guerra in corso. Il capitolo, che si dilunga sulle vicende di una statua inesistente e su giochetti simili all’insegna dell’assurdo, è pressoché illeggibile.

13 – Scoppia la rivolta per il pane, una sorta di spettacolo eseguito da circensi impazziti, da cui Renzo si fa coinvolgere con slancio, data la monotonia della sua esistenza abituale.

14 – Dissipato il tumulto, Renzo cerca un’osteria dove rifocillarsi. Lungo la via fa amicizia con Cesare Beccaria – qui designato come inventore della pena di morte... – e Pietro Verri. Anche il locale  in cui i due lo conducono è frequentato da numerose celebrità – milanesi e non – di ogni genere ed epoca, da Gaspara Stampa ad Arturo Toscanini.

15 – A fine serata Renzo, ubriaco fradicio, trova riposo e trastullo in una camera dell’albergo, in compagnia di tale contessa Maffei. Il risveglio però non è altrettanto piacevole: un piccolo gruppo di uomini armati è venuto ad arrestarlo, senza spiegazioni. Vestendosi frettolosamente, il malcapitato indossa senza badarvi la gonna e il boa di piume della contessa. Il convoglio della polizia incontra però un nuovo assembramento di rivoltosi, al cui aiuto il giovane fa appello per darsi, con successo, alla fuga.

16 – Renzo si allontana da Milano con l’intenzione di raggiungere Bergamo, dove vive un parente di nome Bortolo al quale intende chiedere rifugio e aiuto. Cammina a lungo senza sapere se si trova sulla strada giusta, e quando osa chiedere indicazioni a un curato incontrato per via, riesce a stento  – e con qualche rimpianto – a sfuggire al tentativo di violenza carnale da parte di quest’ultimo, tratto in inganno dagli abiti femminili del giovanotto.

17 – Il cammino prosegue durante una notte travagliata. Lasciata la via maestra, Renzo s’inoltra in un bosco, fino a giungere alle rive di un fiume, che solo il mattino dopo, grazie alla cortesia di un barcaiolo, saprà con certezza essere l’Adda, il corso d’acqua che lo conduce infine felicemente a Bergamo, tra la braccia del cugino Bortolo.

18 – All’insaputa di Renzo, viene spiccato contro di lui un mandato di cattura, da Milano a Lecco. Ne giunge notizia al convento di Monza e a Lucia, molto indispettita nell’apprendere che il fidanzato è riuscito a sfuggire gli sbirri e la condanna. Se infatti egli fosse stato tolto di mezzo, la ragazza, a cui nel frattempo Gertrude cerca con parziale successo di spalancare gli orizzonti dell’amore saffico, potrebbe serenamente e comodamente diventare la mantenuta di don Rodrigo, nobile decaduto ma sufficientemente agiato. Costui, intanto, continua a ordire macchinazioni, sempre più eccitato al pensiero della bella popolana ora quasi suora.

19 – Il conte Attilio, cugino cittadino di don Rodrigo, ha fatto in modo che padre Cristoforo sia allontanato da Pescarenico e spedito in un convento di Milano. Tolto di mezzo questo ostacolo, il signorotto decide di affidare l’affaire Lucia a un sicario temibile quanto efficiente, indicato come ‘Innominato’ per rispetto al Manzoni e alle sue fonti, benché se ne conoscano benissimo le credenziali. 

20 – Il castello dell’Innominato ha l’aspetto di un museo degli orrori, ma l’ormai anziano proprietario sembra già ben avviato al pentimento e alla redenzione dai propri peccati quando don Rodrigo gli chiede il favore di consegnargli Lucia strappandola al convento di Monza. Tuttavia l’interpellato accetta l’incarico, di semplicissima esecuzione, dato che gli basta comunicare le sue intenzioni a Egidio, da sempre suo compagno di scelleratezze, nonché amante di Gertrude. Seppure con rammarico, data l’attrazione che in lei suscita la ragazza, la Monaca esegue le istruzioni di Egidio: fa uscire con un pretesto dal convento Lucia, che quasi subito viene fermata da una carrozza occupata da signori galanti, i quali, dopo un’amabile conversazione in francese e la proposta di portarla con loro a Parigi e di farne una stella della mondanità, la narcotizzano offrendole una sigaretta drogata e la conducono alla dimora del padrone.

21 – Lucia si risveglia nel castello dell’Innominato. In un primo momento è delusa per il mancato viaggio a Parigi, ma si rianima subito alla vista del suo ospite che, lasciandosi sedurre dalla determinatissima ragazza, contro ogni propria aspettativa ritrova i quasi dimenticati ardori erotici della gioventù.

22-23 – Dopo una notte più che soddisfacente trascorsa tra le braccia, e le gambe, di Lucia, l’Innominato si reca a rendere omaggio al cardinale Federigo Borromeo, in visita pastorale nelle vicinanze. Digressione tra lironico e il demenziale su biografia e imprese del prelato, celebre  nei secoli nonostante la sua mediocrità, l’avarizia e l’ignoranza. I due uomini fraternizzano subito e l’Innominato, manifestati al cardinale i suoi progetti di ritorno senile sulla retta via, gli chiede aiuto per risolvere la questione di Lucia senza sfigurare di fronte a don Rodrigo. Federigo convoca don Abbondio, che fa anticamera insieme agli altri preti dei dintorni per rendere onore al porporato, e gli ordina di seguire lo sconosciuto e spaventoso signore che si trova in sua compagnia, di farsi affidare da lui Lucia e di tornare immantinente al paese per celebrare il contrastato matrimonio.

24 – Lucia è tutt’altro che entusiasta, anzi, non vuole proprio saperne di lasciare il maturo amante e gli agi del palazzo per tornare al paese a sposare un insulso filatore di seta. Solo la notizia che il celebre cardinal Federigo s’interessa a lei la convince a seguire don Abbondio fino alla casa del modesto sarto in cui la madre Agnese ha trovato ospitalità al ritorno da Monza. Lì le due donne si scambiano le ultime nuove. Poco dopo le raggiunge il cardinale, che si apparta con Lucia. Nel frattempo, l’Innominato è tornato al castello per organizzare la sua nuova vita da sant’uomo, traendone i maggiori vantaggi possibili.

25 – Le tribolazioni di Lucia vengono a conoscenza di una nobile coppia milanese in villeggiatura nei pressi del paesino in cui abita il sarto. Si tratta di don Ferrante, letterato ignorante e pomposo come si conviene ai suoi pari, e della moglie donna Prassede, sempre smaniosa di conoscere i fatti altrui e di intromettervisi per far del bene. La signora invita a casa propria Agnese e Lucia, chiede loro i dovuti ragguagli, e offre alla sola ragazza ospitalità a Milano, in attesa che le sia possibile ricongiungersi con il fidanzato. Agnese, rispedita a casa propria da donna Prassede su un calesse, ha fatto per via incontri interessanti: il cardinal Federigo, don Abbondio (il quale ha dovuto subire un’altra interminabile lavata di capo per il suo rifiuto di sposare i promessi) e infine un messo dell’Innominato, che le invia una grossa somma come dote per la figlia.

26 – Eccitata dal denaro ricevuto, Agnese ritorna precipitosamente dalla figlia. Lucia però le confida di non potersi più maritare con Renzo, giacché ha fatto voto di rimanere vergine – o, più precisamente, nubile – fino ai quarant’anni se verrà esaudito il suo più grande desiderio, quello di diventare una diva del cinema a Hollywood.

27 – Da Bergamo Renzo, sotto il falso nome di Antonio Rivolta, riesce a far giungere sue notizie ad Agnese e, per mezzo di lei, a Lucia, sempre ospite di donna Prassede e del marito.
Il tempo passa, nulla cambia, si giunge dal 1628 al 1929 (...!).  Ma i grandi eventi pubblici stanno per coinvolgere  e sconvolgere le vite private dei protagonisti.

28 – Il Governatore di Milano, dopo i recenti disordini, si persuade che la colpa di tutti i guai della città è dei topi. Pertanto fa produrre una grande quantità di veleno, che ai milanesi è fatto obbligo di comprare a caro prezzo. Costoro si ribellano all’imposizione e il Governatore è costretto a ribassare il costo del topicida. Intanto però i roditori, disturbati nella loro pacifica vita quotidiana dal timore delle esche avvelenate, diventano estremamente combattivi e, anziché continuare ad accontentarsi di abitare le cantine e cibarsi degli avanzi, muovono alla conquista di tutte le vettovaglie cittadine. Mentre i topi si moltiplicano e diventano sempre più aggressivi, chi ne ha la possibilità abbandona Milano e cerca rifugio altrove, ma i più poveri sono costretti a rimanere. All’inizio della primavera (ora l’anno è diventato improvvisamente il 1648) alle altre sciagure si aggiunge lo scoppio di un’epidemia d'influenza, chiamata ‘spagnola’ perché a Milano dominano appunto gli Spagnoli, e successivamente trasformata in ‘peste’ per colpa di un medico che l’ha così definita.
Il susseguirsi di calamità ha a questo punto l’effetto di una promozione pubblicitaria per la città di Milano; da ogni parte accorrono forestieri, che ben presto cadono a loro volta vittime di carestia ed epidemia. Una grande sala cinematografica in costruzione viene trasformata in tutta fretta in lazzaretto, un luogo di soggiorno tanto confortevole e divertente da far sì che chi vi è entrato non voglia più uscirne, se non da morto.
A rovinare tutto ci si mette la politica, con le intricatissime conseguenze della guerra per la successione nel ducato di Mantova. Il Governatore di Milano viene destituito, e in Lombardia irrompe l’esercito dei lanzichenecchi alemanni.

29-30 – Terrorizzati dall’arrivo delle truppe germaniche, don Abbondio parte con Perpetua e Agnese per chiedere asilo all’Innominato, ma trovano il castello trasformato in un grande e affollatissimo hotel, che prospera grazie al gran numero di rifugiati a pagamento.
Quando il passaggio dell’esercito si è compiuto, i fuggitivi riprendono la via di casa, e si trovano ovunque circondati da distruzione e rovine.

31-32  – Parodia della descrizione della pestilenza del 1630 a Milano e delle digressioni su cause, errori medici e politici, attribuzione irrazionale di responsabilità. La peste non è mai esistita: come tutte le altre malattie, è un’invenzione dei medici. Chi muore, muore per altre cause; gli untori fanno semplicemente abuso di cosmetici. In compenso, nel panico generato in città dalle false notizie, prosperano i trafficanti di cocaina.

33-34 – Dopo una serata passata al solito gozzovigliando con gli amici e gli sgherri, don Rodrigo si ammala: peste, o più probabilmente sifilide, date le sue attitudini amorose.
Mentre si svolgevano gli eventi riferiti, Renzo (dimenticato per molto tempo dall’autore), sempre sotto falso nome, è tornato a Milano ed ha aperto un'agenzia di cambio in società con padre Bonaventura, il francescano a cui l’aveva inizialmente indirizzato padre Cristoforo. Anche lui si ammala di peste (?) e, una volta guarito, è preso dal desiderio di rivedere Lucia: si dirige perciò verso Lecco e il paese natale, sperando che almeno Agnese possa dargli notizie della ragazza. Agnese non è lì. Renzo incontra invece don Abbondio, anche lui convalescente, e rimasto solo, dopo che Perpetua, innamorata pazzamente di Rodolfo Valentino per averlo veduto in un film nel nuovo cinematografo – che è stato la vera rovina del paese – si è suicidata buttandosi dalla cima del Resegone alla notizia della prematura morte dell’attore. Constatata l’inutilità del suo viaggio, il giovane speculatore torna a Milano. In città, muovendosi con circospezione perché sa di essere doppiamente ricercato – per reati politici come Renzo Tramaglino e per bancarotta fraudolenta sotto il falso nome di Antonio Rivolta – si dà alla ricerca della casa di don Ferrante e donna Prassede, sperando che Lucia si trovi ancora con loro.

35 – Mentre si avvicina all’edificio finalmente rintracciato, Renzo viene preso dalla folla per un untore. A salvarlo dal probabile linciaggio è Lucia, che apre il portone pensando si tratti di uno dei clienti abituali a cui, insieme ad altre giovani donne, dispensa favori remunerati con la compiacente ospitalità e la supervisione organizzativa e finanziaria di donna Prassede. Quando riconosce Renzo, Lucia (che forse, se avesse saputo trattarsi di lui, non avrebbe mai aperto) sviene per lo sbalordimento. Nel parapiglia che ne segue, da una delle stanze della casa spunta don Rodrigo. Renzo fa per scagliarsi su di lui armato di un coltellino a serramanico, l’altro sfodera una pistola. Ma il duello viene rimandato, e don Rodrigo lascia il bordello momentaneamente riconciliato con il rivale.

36 – Constatato che è sempre un bel ragazzo, e soprattutto che ora è diventato ricco, Lucia si mostra molto più disponibile e affettuosa che in passato con l’antico fidanzato. C’è però il problema del voto da lei fatto, di rimanere vergine appunto solo con Renzo. L’ostacolo viene felicemente aggirato grazie a un’idea dello scaltro giovane e alla larghezza di vedute del cardinale Federigo, al quale i due subito telefonano per sottoporgli una proposta di soluzione, prontamente accettata: Lucia sarà dispensata dal voto riguardo a Renzo, e in cambio fornirà una lista di venticinque nomi di uomini coi quali da ora in poi manterrà la castità.

37 – Il giorno dopo Renzo torna in ufficio, ma viene lì raggiunto da due signori che gli ricordano il duello con don Rodrigo e lo invitano a scegliere a sua volta i propri secondi. Sbrigata rapidamente questa incombenza, il giovane si reca in auto nel paese in cui sa trovarsi Agnese, per darle notizia della commutazione del voto fatto da Lucia e chiederla ancora una volta, con grandi solennità e cerimoniosità – e addirittura autonominandosi conte – in sposa.

38 – Tutti si radunano nuovamente al paese per il matrimonio. Don Abbondio, tuttavia, è ancora terrorizzato da don Rodrigo. Renzo gli fa credere che sia morto in duello, ma l’altro non è del tutto convinto. Arrivano anche i padrini di Renzo a informarlo che don Rodrigo non potrà presenziare al duello effettivamente programmato per quel pomeriggio, giacché è morto di peste un mese prima (un’altra delle innumerevoli assurdità; oppure don Rodrigo cerca con una menzogna di salvare la pelle?). Finalmente il curato crede alla (doppia) morte di don Rodrigo, e si dà il via  ai preparativi per le nozze. Le sorprese tuttavia non sono finite: giunge in paese un cavaliere che, dopo essersi presentato come marchese di Cognac Martell, dichiara di essere pronipote ed esecutore testamentario di don Rodrigo, il quale ha lasciato in eredità ai due fidanzati il territorio di Lecco. Nel giubilo generale, il Cognac Martell richiede a Lucia di riconoscergli lo jus primae noctis. La leale promessa sposa subordina il consenso al permesso del futuro marito, che lo concede senza difficoltà ma dietro adeguata retribuzione in denaro.
Espletata anche questa bisogna, la domenica successiva viene finalmente celebrato l’attesissimo matrimonio di Renzo e Lucia, che tanto inchiostro ha fatto spandere.
Prima della fine dell’anno nasce una bella bambina  – difficile attribuirne la paternità – e la vita prosegue tranquilla, con Lucia di nuovo trasformata in brava massaia, sempre più tondeggiante e pacifica, piacevolmente indulgente anche nei riguardi delle avventure del marito.


Toccherebbe ora analizzare l’opera, ma direi che per oggi è meglio fermarci qui. Ne parleremo la prossima volta.
A presto, miei diletti.

La seconda parte del post su Alessandro Manzoni e Guido D a Verona si trova qui.

Testi consultati

Enzo Magrì, Guido Da Verona, l’ebreo fascista, Cosenza, Luigi Pellegrini editore, 2005.
Ampia e documentata biografia di Guido Da Verona, con trame delle sue opere, analisi, estratti di critica dell’epoca.

Letture consigliate
            Guido Da Verona, I promessi Sposi
Mercato antiquario: le edizioni originali – soprattutto la prima, con i ritratti di Da Verona e
Manzoni – sono rare, ma non introvabili; sconsiglio l’edizione della casa editrice La Vela, 1976, piena di errori tipografici.
Librerie: sono disponibili due riedizioni:
– 2008, Otto/Novecento, 16 euro;
– 2012, Barbera, 11,90 euro.
Librerie digitali: il testo digitalizzato è scaricabile, gratuitamente, in Liber liber:



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