lunedì 17 settembre 2018

BERNARDO BELLINI ovvero RISPONDERE PER LE RIME



BERNARDO BELLINI
(Griante, Como, 1792 – Torino, 1876)
(Tratto da: Bernardo Bellini, Il triete anglico)



Chi si ricorda oggi di Bernardo Bellini? Se vi è capitato sott’occhio il suo nome, probabilmente è stato sfogliando il monumentale Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo, a cui collaborò. Collaborazione assai problematica, essendo, come scrive il suo biografo Pier Luigi Donini, commessa a due vecchi, dei quali l’uno acciaccoso assai e cieco [il Tommaseo], e l’altro sordo [il Bellini]. (Pier Luigi Donini, Bernardo Bellini, Stamperia Reale di Torino, 1876). Sembra quasi una prefigurazione del film Non guardarmi, non ti sento (See no Evil, Hear no Evil), regia di Arthur Hiller, 1989).
Tommaseo aveva scelto bene il suo collaboratore, perché la competenza linguistica a Bellini non mancava certo. Competenza indubitabile, ma Bellini a volte si faceva prendere la mano. Un esempio? Eccolo:

[…] Era il suo volto
Fra pallidetto e rubicondo, quale
è la sembianza d’Iride susina,
Dappoiché lievemente ebbele il dorso,
Ricurvo in arco, flagellato e scosso
L’acquosa di Vulturno ala sonante.
(Triete Anglico, VII)

Dove susina non è il noto frutto, ma una aggettivo derivato dal latino unguentum susinum, “unguento di gigli”; dunque: “Iride candida come un giglio”. Non mi credete? Andatevi a leggere la voce “susino” nel Dizionario del Tommaseo.

Non sempre la competenza però era sorretta dal gusto:

Una donna divelte ha le mammelle,
Scema è degli occhi, ed ha le trecce sciolte,
E tutta cincischiata è in sulla pelle.
(L’Inferno della tirannide, XX, 52-54)

Cincischiata?!? In un contesto così truculento? Il termine è del tutto fuori luogo, e così sortisce un involontario effetto comico anziché il desiderato effetto drammatico.

La (troppa) facilità di Bellini nell’improvvisare versi lo portava a volte a sconfinare nella sciatteria:

Ma se tu varchi là quel ponticello
Che fan le schegge (ed additollo a dito),
Anche più del voler saprai di bello.
(L’Inferno della tirannide, XIX, 25-27)

Additollo a dito?!? Per evitare la pleonastica ripetizione bastava scrivere “indicollo a dito”!

La stesura di un’opera enciclopedica come quella del Dizionario della lingua italiana fu un’impresa ambiziosa ed eccezionalmente impegnativa. Ma ambizione, capacità di lavoro e coraggio (o, meglio, temerarietà) non mancavano certo a Bellini. Come pure la vocazione alle imprese enciclopediche.
Aveva cominciato proponendosi di tradurre tutti i poeti classici greci, attirandosi l’ironia di Giacomo Leopardi: Certo la impresa  [...] è Erculea, o vogliam dire Atlantea [...]. […] ricordomi avere inteso dire che per ben tradurre sia mestieri avere in certa guisa l’anima dello scrittore che è da voltare in altra lingua. Or sarà possibile che il Sig. Bellini abbia le anime di tutti i poeti classici Greci? [...] Potremo noi credere che il Sig. Bellini sia egualmente atto a tradurre un poeta che un altro? Qualche maligno facilmente l’affermerebbe; non io. (Scritti letterari, Firenze, Le Monnier, 1899, vol. II, pp. 81 sgg.) L’impresa non venne portata a termine.
Detto per inciso, Leopardi e Bellini erano di tempra completamente diversa: aristocraticamente isolato il primo, cortigiano e adulatore il secondo. Il lombardo Bellini cercò infatti prima di ingraziarsi il dominatore austriaco, poi, nel 1848, fiutati i tempi nuovi, appoggiò la causa sabauda.
Bellini intraprese in seguito la compilazione dalla Pantografia (dal 1830?), un’opera di storia universale, in fascicoli periodici; opera incompiuta, per la progressiva diminuzione del numero degli acquirenti.
Scrisse pure trattati:
Callomazia: poema estetico-didascalico sul bello (Milano, 1850);
Ippopedia (Cremona 1818), trattato sui cavalli, in versi latini.
(Ecco, darsi all’ippica era la scelta più opportuna, direbbe qualche malizioso.)

Titoli classicheggianti, come si vede. Questo era il limite di Bellini: l’essere legato a una cultura e a un mondo che stavano morendo, cedendo il passo alle nuove istanze della modernità. Bellini era un dinosauro che non sapeva di essere in via di estinzione. E infatti la sua forma letteraria preferita era il poema. In quest’ambito la sua opera più ambiziosa fu la Colombiade (Cremona, 1826), monumentale poema sulla scoperta dell’America: ventiquattro Canti per un totale di 20 440 versi (li ho contati personalmente per voi, miei diletti; la Divina Commedia ne contiene “solo” 14 233).
Nei poemi Bellini poteva dispiegare tutta la sua cultura letteraria e la sua facilità di rimatore. Con esiti, a volte, involontariamente comici. Proviamo a leggere il canto X del Triete anglico (Milano, 1818), cioè il Triennio Inglese, precisamente quello 1815-17:

Durante la battaglia di Waterloo i Francesi portano lo scompiglio fra le truppe nemiche,

Quando alle timorose anime innante
Wellington si fa incontro, ira spirante.

[…]
Rimanti, o turba stolta, o gente inetta.
Grida. E solo all’ostil campo s’affretta.

Cammina sì, che lo diresti un mare
Quando surge gonfiato e urta la sponda,
E vedesi li boschi ardui appianare
Colla bollente correntia dell’onda.

Uno tsunami, insomma: si può fare tranquillamente a meno dei soldati, quando si ha un generale così. Ma arriva Napoleone, e sono guai seri.

Ovunque si fa loco, e la fortuna
Torce ad imo degli angli pugnatori.
Percossa in lui non scende, o se pur giunge
inutil torna, o lievemente il punge.

Non provateci ragazzi, Napoleone è praticamente invulnerabile (tranne sulla pancia, direi, dal momento che nei suoi ritratti l’ho quasi sempre visto tenerci la mano)!

[…] ad ambe man l’acciaro
Impugna […].
Quattro fessi ed ancisi al suolo andaro
Dal fero braccio nel ferir maestro,

(Fero, ferir: non male come allitterazione.)

Ma la spada in tre pezzi infranta cade,
E un gel di morte i circostanti invade.

Si è rotta la spada? Nessun problema:

Un ferrigno petron ghermisce, e scaglia
Contro al nemico la sassosa mole,
E a un punto lo minaccia e l’abbarbaglia,
Come in nubilo ciel lampo di sole.
Diece ne schiaccia, e diece ne sbaraglia,
Percosse alterna e orribili parole.

(Be’, in quanto a orribili parole, in quella battaglia Cambronne non fu da meno.)

Veggendo poscia una distesa trave
Ch’era sostegno un tempo a largo tetto,
L’innalza come suolsi albero in nave,
E l’agita in magnanimo dispetto:
Sembra gigante; ognun lo sfugge e pave

Un gigante Napoleone? “Sembra”!

Ov’egli ha il braccio minacciante eretto.
Stridisce l’aura all’ondeggiar del legno,
cui mille non farian brandi ritegno.

La trave ei cala ove a battaglia instrutti
Venian precipitando i cavalieri,
E sopra diece, a lui presso ridutti,
Che traean minacciando armi e destrieri,
giù rovinolla, ed ammaccando a tutti
Le fronti, e la cervice erta a’ destrier,
Dovunque lutto, orror, minaccia sparse,
E quasi nume ai fuggitivi apparse.

Napoleone sale poi su una fortificazione. Sale? I comuni mortali “salgono”; Napoleone invece, come Superman, trasvola!

A sommo il gran campione ivi trasvola
Impetüosamente, e urta e fa punta,
[…]
A mille fende il sen, fende la gola,
E schiaccia gli egri, e sui caduti monta..

[…]

Ma in due si spezza la sua trave,

(Anche quella! Accipicchia, che sfortuna!)

ond’ei
Da sé lunge con man forte la slancia,
E fa larga schiacciata, e pesta a sei
L’erette spalle, e a due rompe la guancia.

Ma il vile nemico lo fa saltare in aria con una carica esplosiva, insieme a un pezzo di muro: finale col botto!

Sollevato nell’aere dal fuoco
Sopra un largo sfasciume egli s’innalza,
Né in cima a quel mal fermo aereo loco
Pallido fassi, e immoto egli è qual balza.
Fra l’etere che tuona arsiccio e roco,
Tra la fiamma che lui cinge e rincalza,
tal ei si sta come ai Titani inante
nelle nubi di Flegra arse il Tonante.

E quando il masso ricade, che ne è di Napoleone? Tranquilli: atterra a piè fermo, senza farsi neanche un graffio (ne dubitavate?).

Un effetto degno dei cartoni animati di Wile E. Coyote e Beep Beep. E un Napoleone degno emulo dell’Orlando furioso: ci si domanda come mai, dopo simili prodezze, abbia perso la battaglia. Ma, nelle esagerazioni, Bellini era in buona compagnia: prendete, miei diletti, l’atletico Napoleone come Marte pacificatore (Antonio Canova, 1803-1806) e il turbinoso ed eroico Napoleone che attraversa le Alpi (Jacques-Louis David, 1801 e segg.; 5 versioni), e confrontateli con il molto più realistico L’imperatore Napoleone nel suo studio alle Tuileries (sempre di Jacques-Louis David, 1812), ritratto in versione quasi casalinga e con un’incipiente pancetta.

Il Triete Anglico non è la sola opera in cui Bellini utilizza la sua cultura letteraria polverosa e antiquata per trattare avvenimenti contemporanei. Molti anni dopo il Nostro infatti pubblicherà L’inferno della tirannide (1865), un ricalco, in chiave risorgimentale e antiaustriaca, dell’Inferno di Dante. Se nell’Inferno Virgilio guida Dante nel suo viaggio nell’Oltretomba, nell’Inferno della Tirannide è Dante stesso a guidare il Lombardo (Bellini stesso) nel suo pellegrinaggio fra gli orrori della dominazione austriaca.
Ciò che rende il poema stupefacente è il fatto che Bellini mantiene non solo le rime dantesche, ma addirittura la parola finale di ogni verso.
 Rispondere per le rime” – cioè scrivere una poesia usando le stesse rime di una esistente – era una pratica ricorrente fra i poeti, già nel Medioevo; per esempio, al sonetto di Dante A ciascun’alma presa e gentil core (Vita Nova III 10-12), Guido Cavalcanti rispose con Vedeste, al mio parere, onne valore (Rime). Tecnicamente questa forma poetica si chiama “rima obbligata”.
L’idea di andare oltre la semplice rima, coinvolgendo per intero l’ultima parola di ogni verso, ha un’origine francese e si chiama bouts-rimés (letteralmente: estremità rimate). Si racconta che tale Dulot, poeta minore francese del XVII secolo, in un giorno del 1648 si lamentava che gli avevano rubato trecento sonetti. A chi manifestava sorpresa per la sua prolificità poetica, Dulot rispose che si trattava di sonetti in bianco: aveva scritto solo le parole finali dei versi, in rima. L’idea fu giudicata divertente e si trasformò in un gioco di società. (Aneddoto riportato in Menagiana, raccolta di pensieri e battute di spirito di Gilles Ménage, a cura di Antoine Galland, 1693.)

A parte la difficoltà, ovvia, di costruire una nuova storia con l’obbligo di usare le vecchie parole-rima, cosa fare dei luoghi e dei personaggi danteschi, posti in fine di verso? Bellini, quando può, li sostituisce con omonimi. Così l’oscuro Sassolo Mascheroni, contemporaneo di Dante, diventa il celebre Lorenzo Mascheroni (Bergamo, 1750 – Parigi, 1800), matematico e letterato italiano.
Ma nel Canto V, che leggete all’inizio di questo post, che fare di Dido (Didone)? Bellini la utilizza come termine di paragone: cotali uscir de la schiera ov’è Dido... diventa: Vo, guato; e non fu mai sì affiso in Dido Sicheo [marito di Didone, ucciso da Pigmalione].
Ingegnosa è anche la riscrittura del verso 117, dove l’aggettivo dantesco pio si trasforma in un nome proprio, facendo riferimento a Pio IX.

E come regolarsi col famoso e misterioso verso Pape Satàn, pape Satàn aleppe? Bellini se la cava a buon mercato, evitando sia di cambiarlo che di spiegarlo:

«Pape Satàn, pape Satàn aleppe»,
Urlò Radetzky con la voce chioccia,
Né degli arcani accenti il senso ei seppe.

Come dire che si trattava di qualcosa di ancora più astruso della lingua dei crucchi.

Che ne è del celeberrimo Canto V? La vicenda commovente dell’amore fra Paolo e Francesca diventa una storia di stupro, violenza, tortura.

Confrontiamo i versi di Dante:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante”.

con quelli di Bellini:

Allora quei con barbaro diletto
Noi come vedi d’una fune strinse,
E qui ne trascinò pien di sospetto, – 

Com’ella ha detto, ecco ambedue sospinse
Uno scherano, tenebrato in viso,
Entro un  gran rogo ch’ogni incendio vinse,

E là Radetzky con beffardo riso,
Sparso di ragia l’uno e l’altro amante
Vedea stridere ed arder non diviso.

Allor l’Alighier tutto tremante,
Tal pena, ah mia Commedia non la scrisse,
Dice piangendo, e più non dice avante:

La poesia dell’originale scompare, cedendo il posto all’indignazione e all’invettiva: è uno dei luoghi in cui appare più evidente che Dall’anello dantesco il Bellini ha tolto la gemma per incastonarvi un culo di bottiglia. (Mario Praz)
Non manca tuttavia una finezza che io, amante dei giochi di parole, non posso non apprezzare: le allitterazioni del celeberrimo verso dantesco Amor, ch’a nullo amato amar perdona trovano un equivalente in quelle del Bellini: Un tedesco predon che non perdona.
Però, dopo aver combinato – letteralmente – un macello, alla fine del canto un sussulto di pudore Bellini lo prova, e non trova perciò il coraggio di modificare l’ultimo verso: lo cita tale e quale, fra virgolette:

«E caddi come corpo morto cade.»

L’Inferno della tirannide non merita certo un posto nella storia della grande letteratura; ma – come osserva Mario Praz – un posticino fra i cimeli risorgimentali, fra le buone cose di pessimo gusto dei salotti di qualche nonna Speranza, quello sì. E senz’altro – aggiungo io – un posto di rilievo nello scaffale dei giochi di parole.


APPENDICE

Bernardo Bellini, L’Inferno della tirannide, V, 70-142
PARAFRASI

Quando io vi ebbi udito più di un nome, vidi diversi cavalieri ammanettati, cosicché mi volsi smarrito al Poeta. Poi ricominciai: “I miei occhi si rivolgono malvolentieri ai dannati a torto. Portami via da qui: per te sarà cosa facile!” ed egli: “I tuoi desideri saranno esauditi in buona parte, poiché la tua pietà me lo chiede, ma prima i tuoi sguardi si rivolgeranno ad altri tormenti. Allontanati dal malvagio giudice, in modo che egli non veda, e osserva altre anime angosciate a cui il dolore troppo grande impedisce di piangere. Tu prima che siano chiamate al martirio invitale presso di te: le vedrai giungere al tuo desiderio come a un pietoso rifugio. “Vado, guardo: e Sicheo non guardò mai così fissamente Didone, come in quel luogo maligno un giovane guarda la sua sposa, e alza un grido. Benché mesto, aveva un’espressione benevola, e nel chiarore che sopraffaceva l’aria scura mostrava il petto insanguinato da una grande piaga. Stretto alla donna esclamava: “O re dell’universo, accoglici nella tua pace, sottraici ai denti di un drago perverso!” Allora cominciai a dire: “Per favore, anime affannate, (io vi prego) ditemi per intero il dolore che in parte ora è inespresso!” E la donna rispose: “Io nacqui all’estremità superiore del lago di Como, dove l’Adda scende col vivo argento dei suoi affluenti. L’amore che infiamma le anime nobili strinse a costui la mia casta persona, che ora è stata contaminata, e il modo mi offende ancora. Un predone tedesco che non rispetta il pudore, ma si fa rabbioso e forte nella libidine che non lo lascia mai, entrò nel mio letto, mi minacciò di morte, per cui svenni… E mi lasciò così macchiata sulle porte! [?] A vedere quelle maledette offese giunse il mio sposo, e, trascinato in un luogo più in basso [gettato a terra?], quel fellone si guadagnò più di quello che immaginava. Dopo averlo ucciso gridava forte: “Oh povero me! O orribile desiderio di vendetta, rendi un lampo il mio cuore, un lampo il passo”. Voglio placare la mia brama sul crudele comandante, autore di stupri, responsabile di martìri; e io so che Pio IX sta dalla sua parte!” Mentre egli mescolava ai lamenti e ai sospiri il nome di Pio IX non più sinonimo d’amore, né fonte di santi desideri, ad accrescere per sé l’infamia, per noi il dolore, sopravvenne il Bolza [Luigi Bolza (Loveno, 1786 – Loveno, 1874), funzionario della polizia austriaca impiegato in compiti di repressione politica], e fu felice della sua preda, lui maestro ed esperto di opere malvagie. E a costui, fonte del mio amore, cacciò un pugnale nel petto: ma la passione più forte non muore in lui, perché grida Viva l’Italia! Allora quello, con selvaggio piacere ci strinse come vedi con una fune, e ci trascinò qui pieno di sospetti.” Appena ella ebbe finito di parlare, ecco che uno sgherro, col viso scuro, spinse entrambi dentro un rogo più grande di ogni altro incendio, e là Radetzky con una risata beffarda, dopo aver cosparso d’acqua ragia entrambi gli amanti, li guardava bruciare insieme. Allora l’Alighieri tutto tremante dice piangendo: “Ah, una pena così la mia Commedia non la narrò” e non dice altro: ed io non piansi quando egli pianse e parlò, perché mi vinsero la rabbia e la pietà; mi sentii gelare come se stessi per morire, “E caddi come corpo morto cade.”


LETTURE CONSIGLIATE

Bernardo Bellini, L’Inferno della tirannide conseguitato dalla guerra per l’indipendenza italiana nel 1848, Cantica, Torino, Tipografia Eredi Botta, 1865.
L’Inferno della tirannide è stato stampato in sole 1000 copie, ed è introvabile. Potete però scaricare la versione digitalizzata qui.

La maggior parte delle informazioni relative a Bernardo Bellini e la sua opera sono state ricavate da:
Mario Praz, Bernardo Bellini e un curioso poema sul Risorgimento, in Bellezza e bizzarria, Milano, Il Saggiatore, 1960). Attenzione: non confondetelo con Mario Praz, Bellezza e bizzarria, saggi scelti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, collana I Meridiani, 2002, che non contiene il saggio su Bellini.


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3 commenti:

  1. Ho fatto la mia tesi di laurea su Berbardo Bellini nel 1980. Che emozione rivederne il ritratto! Non è stato un gran letterato, ma per me è come un vecchio zio. Ho provato a "cliccare" sul Suo sito per rivedere l'Inferno della tirannida, ma dà errore ....

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    Risposte
    1. Strano che dia errore, perché il link funziona, ho riverificato. Prova a digitare su Google "bellini inferno tirannide": apparirà fra i primi risultati. E' un libro digitalizzato da Google.

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  2. Chissà che blog avrebbe fatto il Bellini!?!
    😀

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