giovedì 24 maggio 2012

GIUSEPPE GIOACHINO BELLI ovvero SCUSATE SE INSISTO



1182. Papa Sisto

     Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Ddio, nun z’è mmai visto
un papa rugantino, un papa tosto,
un papa matto, uguale a Ppapa Sisto.

     E nun zolo è dda dí cche ddassi er pisto
a cchiunqu’omo che jj’annava accosto,
ma nun la perdonò nneppur’a Ccristo,
e nnemmanco lo roppe d’anniscosto.
  
     Aringrazziam’Iddio c’adesso er guasto
nun pò ssuccede ppiù cche vvienghi un fusto
d’arimette la Cchiesa in quel’incrasto.
  
     Perché nun ce pò èsse tanto presto
un antro papa che jje pijji er gusto
de méttese pe nnome Sisto Sesto.

9 aprile 1834

Fra tutti quelli che hanno avuto il posto di vicario di Dio, non si è mai visto un papa arrogante e collerico, un papa tosto, un papa matto, come Papa Sisto V. E non c’è solo da dire che dava quel che si meritava a ognuno di quelli che gli andavano appresso, ma non la perdonò nemmeno a Gesù Cristo, e non lo ruppe nemmeno di nascosto. Ringraziamo Dio che adesso non può più succedere che venga un tipo in grado di rimettere la Chiesa in quella situazione. Perché non ci può essere tanto presto un altro papa che si pigli il gusto di mettersi per nome Sisto Sesto.

[L’accenno a Gesù Cristo si riferisce a un aneddoto leggendario, secondo il quale Sisto V avrebbe spaccato in due un crocifisso che sanguinava, svelando il trucco: una spugna intrisa di sangue animale, che veniva strizzata tirando una corda.]



GIUSEPPE FRANCESCO ANTONIO MARIA GIOACHINO RAIMONDO (e chi più ne ha più ne metta) BELLI, o, per gli amici,

GIUSEPPE GIOACHINO BELLI

(Roma, 7 settembre 1791 – Roma, 21 dicembre 1863)



Un mio amico – veneto come me – tanti anni fa faceva il servizio militare, come ufficiale, a Roma. Un giorno stava abbordando una ragazza, su un ponte: passa un tizio qualsiasi e, senza tanti complimenti, si rivolge alla ragazza: “Nun je ddar rretta!”
In Veneto un episodio del genere sarebbe impensabile; ma i romani sono così: battuta pronta e lingua tagliente, e nessun esitazione a impicciarsi dei fatti degli altri.
Fu Giuseppe Gioachino Belli lo scrittore che meglio seppe interpretare questo carattere del popolo romano. La sua produzione in romanesco è quantitativamente inferiore a quella in italiano; ma, non a caso, è la più nota e apprezzata. Inferiore sì, ma non esigua: 2272 sonetti!
Il suo obiettivo? Ritrarre l’indole della Roma popolana:
Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. (G.B.)
Una plebe che si esprime con spontaneità e vigore, perché non è intervenuta la cultura a temperarli:
I nostri popolani non hanno arte alcuna, non di oratoria, non di poetica: come niuna plebe n’ebbe mai. Tutto esce spontaneo dalla natura loro, viva sempre ed energica perché lasciata libera nello sviluppo di qualità non fattizie. (G.B.)
Una spontaneità e un vigore che la cultura di un letterato rischierebbe di distruggere:
Esporre le frasi del romano quali dalla bocca del romano escono tuttora, senza ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto quelli che il parlator romanesco usi egli stesso: insomma cavare una regola dal caso e una grammatica dall’uso, ecco il mio scopo. Io non vo’ gia presentare nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia. Il numero poetico e la rima debbono uscire come accidente dall’accozzamento, in apparenza casuale, di libere frasi e correnti parole non iscomposte giammai, non corrette, né modellate, né acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie: attalché i versi gettati con simigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni ma risvegliare reminiscenze. E dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto spregevole da chi non guardi le cose attraverso la lente del pregiudizio. (G.B.)
E perciò il poeta non si deve fermare neanche davanti al volgare e al blasfemo:
Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello, ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più abbandonata senza miglioramento. (G.B.)
Il Belli ribadisce ancora il carattere popolare, non municipale, della sua lingua; una lingua che non è di tutta la città, ma delle sue classi più basse:
Molti altri scrittori ne’ dialetti o ne’ patrii vernacoli abbiam noi veduti sorgere in Italia, e vari di questi meritar laude anche fra i posteri. Però un più assai vasto campo che a me non si presenta era loro aperto da parlari non esclusivamente appartenenti a tale o tal plebe o frazione di popolo, ma usate da tutte insieme le classi di una peculiare popolazione: donde nascono le lingue municipali. Quindi la facoltà delle figure, le inversioni della sintassi, le risorse della cultura e dell’arte. Non così a me si concede dalla mia circostanza. Io qui ritraggo le idee di una plebe ignorante, comunque in gran parte concettosa ed arguta, e le ritraggo, dirò, col soccorso di un idiotismo continuo, di una favella tutta guasta e corrotta, di una lingua infine non italiana e neppur romana, ma romanesca. (G.B.)
La simpatia del Belli per il mondo popolare deriva certamente dai principi della poetica romantica, ma gli permette anche di denunciare, senza peli sulla lingua,  le ipocrisie e gli egoismi delle classi alte, a cui egli apparteneva.
Nel poema romanesco sono sfiorati tutti i motivi e le tonalità, dalla elementare comicità schietta e spontanea, dalla satira carica di fiele, dall’invettiva amara contro persone e istituzioni, alla risata sfrenata, al sarcasmo cupo, al dramma e alla elegia, infine alla rappresentazione trepida e insolitamente raccolta. (Giovanni Orioli)
Belli non ama giocare con le parole; la sua è una comicità concreta, in lui il riso nasce dalle cose, dalle situazioni. Ma c’è un’eccezione: il sonetto dedicato a Sisto V, in cui la battuta finale si fonda sulla buffa cacofonia del nome del futuro, ipotetico, Sisto VI. Una cacofonia che Belli prepara e orchestra sapientemente:
- dispone una sfilza di rime omoteleutiche (= simili, e quindi tutte assonanti fra di loro),
- che differiscono solo per la vocale tonica
- e dove sono presenti tutte le cinque vocali: -osto, -isto, -asto, - usto, - esto;
poi, come alla conclusione di uno spettacolo di fuochi d’artificio,
- nel finale intensifica il ritmo e spara di seguito le due ultime, inaspettate, assonanze.
È la ripresa – non saprei dire se consapevole o meno – degli schemi metrici di Ludovico Leporeo (1582 – 1655 circa). Una ripresa in forma semplificata e meno rigorosa:
       - le rime non sono in ordine alfabetico;
- anziché rime interne regolari abbiamo un’unica, inaspettata e proprio per questo efficace, assonanza interna finale.

Resta da chiedersi se esista qualche altro nome impossibile per un papa. Vito La Colla scrive alla rubrica Scioglilingua di Giorgio Di Rienzo, sul Corriere della Sera, l’8 aprile 2005: Un altro nome pontificale che si può, forse, considerare come esaurito nella storia dei papi è Urbano. Perché toccherebbe ora al IX, Urbano nono sarebbe pure un tantino cacofonico.
Ma non è detta l’ultima parola: scopro or ora che è esistito uno scultore che si chiamava Urbano Nono (Venezia, 1849 – Longarone, Belluno, 1925); il fratello, pittore, si chiamava Luigi Nono (Fusina, Venezia, 1850 – Venezia, 1918), come il santo re francese: i genitori devono essere stati dei buontemponi! Se avessero avuto nove figli, non ho dubbi sul nome che avrebbero dato all’ultimo...
Provo allora io a dedicare una filastrocca a Urbano VIII Barberini. Ricordo la celebre pasquinata con cui venne criticato per aver fatto asportare le strutture in bronzo del pronao del Pantheon, per fare il baldacchino di San Pietro e cannoni per Castel Sant’Angelo: Quod non fecerunt barbari, Barbarini fecerunt (= Ciò che non fecero i barbari, lo fecero i Barberini). Chi ne fu l’autore? La notizia è recentissima (Corriere della Sera, 25 aprile 2012): è Urbano VIII stesso a scrivere nel suo diaro che fu il sacerdote Carlo Castelli, all’epoca canonico di Santa Maria in Cosmedin e ambasciatore del Duca di Mantova presso la Santa Sede, che glielo confessò in punto di morte.


PAPA URBANO

Quel che i barbari non fecero
fece un Barberini becero:
papa Urbano VIII, str...,1
privò il Pantheon del bronzo.
Per fortuna non avrò
un Urbano IX, no!

1 – Lacuna nel documento: strano?


LETTURE CONSIGLIATE

http://www.liberliber.it/libri/b/belli/index.htm 
Tutti i sonetti digitalizzati.

SITI INTERNET

http://www.treccani.it/enciclopedia/domenico-belli_res-964bfe2a-87e7-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Dizionario-Biografico%29/ 
Voce su Giuseppe Gioachino Belli, a cura di  Giovanni Orioli, del Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani editore.


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2 commenti:

  1. Grazie mille per il regalo!!!

    Dario Bressanini

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    Risposte
    1. Grazie per l'apprezzamento e, soprattutto, per aver visitato il mio piccolo blog!

      Elimina

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