ARRIGO BOITO
(Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918)
Non era cominciato bene il rapporto fra Arrigo Boito e Giuseppe Verdi. Il 22 novembre 1863
Boito aveva pubblicato nella rivista Museo di Famiglia l’Ode saffica col bicchiere alla mano:
Alla salute dell’Arte italiana!
Perché scappi fuori un momentino
Dalla cerchia del vecchio e del cretino,
Giovane e sana.
[...]
Forse già nacque chi sovra l’altare
Rizzerà l’arte, verecondo e puro,
su quell’altare bruttato come un muro
Di lupanare.
[...]
Verdi, convinto che Boito si riferisse a lui (se a torto o a ragione non sappiamo con certezza: Boito lo negò sempre), non la prese bene. Ci vollero tutta la pazienza e la diplomazia dell’editore Ricordi per ripristinare i rapporti fra i due: uno sforzo di cui lo dobbiamo ringraziare, perché dalla loro collaborazione nacquero due capolavori, la tragedia di Otello (1887) e la commedia di Falstaff (1893), che rinnovarono il melodramma italiano superando la tradizione dei pezzi chiusi (cioè delle arie, intervallate da recitativi). E ne nacque un’amicizia duratura, un rapporto quasi da padre a figlio fra Verdi (che era del 1813) e Boito (che era del 1842), una stima da parte di Verdi e una devozione da parte di Boito.
I due non potevano essere più diversi.
Boito era meno dotato musicalmente di Verdi: Manca di spontaneità e gli manca il motivo. (Lettera di G. Verdi a Opprandino Arrivabene, citato da E. Buroni nella sua tesi di dottorato Arrigo Boito librettista.). A questo si aggiungevano un’attitudine critica e un perfezionismo paralizzanti, che lo spingevano a disfare e rifare continuamente il proprio lavoro, alla ricerca del capolavoro musicale. Scrisse due sole opere: il Mefistofele, che continuò per anni a ritoccare (non solo dopo l’insuccesso iniziale del 1868, ma anche dopo il trionfo del 1875) e il Nerone, che, continuamente annunciato, rimase incompiuto. Così scriveva a Verdi: Lei è più sano di me, più forte di me, abbiamo fatto la prova del braccio e il mio piegava sotto il suo, la sua vita è tranquilla e serena, ripigli la penna e mi scriva presto: Caro Boito, fatemi il piacere di mutare questi versi ecc. ecc. ed io li muterò subito con gioja e saprò lavorare per Lei, io che non so lavorare per me, perché Lei vive nella vita vera e reale dell’Arte, io nel mondo delle allucinazioni. (Lettera di A. Boito a G. Verdi, 19 aprile 1884.)
Di tutt’altra pasta era Verdi, che aveva assorbito dagli avi la mentalità contadina concreta e pragmatica. A Corrado Ricci che gli spiegava che [...] il Nerone non si compiva perché il Boito aveva il brutto difetto d’essere troppo esigente sulle cose proprie, cioè autocritico, Verdi rispondeva: Non bisogna esagerare nella smania di perfezione, perché è il vero modo di non compiere nulla. La natura, la sincerità di un maestro si mostra meglio mantenendo intatto ciò che è uscito dal proprio genio, dalla propria ispirazione, che ritornare sempre sui propri passi. Anzi, dall’alternativa di cose un po’ basse con altre elevate, queste s’avvantaggiano di più nel contrasto. Talora è da credere che alcuni poeti abbino calcolato su simili effetti. (Corrado Ricci nel Giornale d’Italia del 2 giugno 1918, riportato in Raffaello De Rensis, Arrigo Boito – Aneddoti e bizzarrie poetiche musicali, Roma, Fratelli Palombi Editori, 1942.)
Il sodalizio tra i due fu per Boito liberatorio, per due motivi:
1 – Il confronto con un collega ha una funzione – per usare una metafora biologica – enzimatica: catalizza la reazione creativa. Aiuta ad evitare i vicoli ciechi, a identificare le strade promettenti, ad aprirne di nuove. Non solo: velocizza il lavoro e ne migliora la qualità.
Succede, quando si lavora da soli (e soprattutto se si è di temperamento problematico), di arenarsi per un’inezia o per un dubbio; discuterne con un collega o un amico è la cosa migliore per schiarirsi le idee e per sbloccarsi velocemente: vi dirà di non perder tempo su questo, di focalizzarvi su quello, vi darà degli spunti, vi conforterà su una soluzione... o vi dirà che fa schifo (ma non dovete offendervi!). Sono conversazioni provvidenziali, credetemi miei diletti, ve lo dico da architetto, per esperienza personale, perché i difetti di Boito li ho anch’io. Ma ricordatevi: è fondamentale non essere permalosi.
2 – E poi, diciamocelo francamente: la responsabilità delle scelte finali e definitive ricadeva sempre su Verdi.
Verdi d’altro canto trovava in Boito il librettista ideale, per più motivi:
1 – Boito era, oltre che un buon poeta, un versificatore dalle notevolissime capacità tecniche e dal lessico amplissimo: nei suoi scritti troviamo dantismi, lasciti della tradizione petrarchesca e cinquecentesca, termini colti, ma anche gergali, regionali, colloquiali.
2 – Oltre che letterato, Boito era anche musicista: dunque conosceva profondamente, a livello professionale e per esperienza diretta, il melodramma in tutti e due i suoi aspetti, letterario e musicale.
3 – Si aggiunga poi, per quanto riguarda il Falstaff, la propensione di Boito per il divertimento, le bizzarie e i funambolismi verbali. Propensione che emerge prepotentemente nella corrispondenza privata, più libera e informale, in particolare quella con l’amico Giuseppe Giacosa. Vediamone alcuni esempi.
Due sole rime:
Alla Distintissima Signorina
~ Paolina Giacosa ~
esimia dilettante di fotografia
Laude
Quel ritratto m’assomiglia
Perché il sole è Verità.
Anche quando un granchio piglia
Il fotografo nol sa,
Perché tardi le sue ciglia
Scorgon quel ch’ei fece là.
Ma una figlia di famiglia
Sempre sa quello che fa
Specie se tenuta in briglia
Dalla mamma e dal papà.
(A Paola Giacosa, senza data.)
Omografi, ma con accento diverso:
Mentre ti scrivo al tavolo
incretinito e solo,
al par d’Elia l’arcavolo (1)
sovr’ardent’arca volo.
Per te qual da un trapezio
balzo sul suol natio
del direttor dell’Ezio, (2)
con cuor di padre e zio.
Volo alla Duse: elessero
tuoi versi ad essa impero.
Sparir quei che tessero (3)
tirate alla Tessèro. (4)
Ma il pianto al par della fistola (5)
sulla mia guancia cola!
Vorrei con questa pistola (6)
partir come pistola.
Ma invan! Pure a correggere
le sorti mie severe
le tue mi dovrai leggere
commedie alte e leggere..
(A Giuseppe Giacosa, 19 ottobre1883.)
(1) Elia = Profeta biblico.
(2) Direttor dell’Ezio = Metastasio, nato a Roma, autore dell’Ezio?
(3) Tessero = Tesserono.
(4) Tessèro = L’attrice Adelaide Tessero.
(5) Fistola = Antico strumento musicale a fiato.
(6) Pistola (leggi “pìstola”) = epistola.
Spostamento scherzoso degli accenti, mutando le parole da piane a sdrucciole e viceversa:
O Pin. (1)
Verga sclamò: Lerai! (2)
Gualdo rispose: Mai!
Io sol, perché te àdulo,
La mia canzon già mòdulo:
Andrem sul San Theòdulo, (3)
Ci andrem di grado in gràdulo,
E i passi, messi in fila,
Dei nostri audaci piè
Faran N. 3333!
Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Io sol, perché te adùlo,
La mia canzon già modùlo:
Andrem sul San Theodùlo,
A piedi e senza mulo,
Con fosco binocùlo
Garantirem l’ocùlo.
E i passi messi in fila,
Dei nostri eroici piè
Faran N. 3333!
Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Con foga aculeata
Dai sorsi del cognac
Affronterem sul ghiaccio
S’anco faccia un crepaccio
Sotto il tuo peso crac.
E i passi messi in fila,
Dei nostri eccelsi piè
Faran N. 3333!
Verga sclamò: Lerai!
Gualdo rispose: Mai!
Facciamo i patti tondi
per ripartire i pondi (4)
Sul vitreo pendìo
Varcando in su e in giù
Prima passerai tu
E poi passerò io.
E i passi messi in fila,
Dei nostri alati piè
Faran N. 3333!
(A Giuseppe Giacosa, 23 giugno 1885.)
(1) Pin = Giuseppe Giacosa.
(2) Lerai = Espressione negativa milanese da “ciondolerai”.
(3) Passo del San Teodulo, 3333 metri s.l.m.
(4) Pondi = Pesi.
Rime con raddoppio di consonante:
[...]
. . . . . .
Ed ora che hai fatto
Lieto il mio fato,
La man mi gratto
E ti son grato
–
Color che sanno
Ti voglion sano.
A te il nuov’anno
Porti un nuov’ano.
––––
Schiva la carta Bristola (1)
Quella non fa per te
Guarisci la tua fistola
e vieni a San Josè. (2)
(A Giuseppe Giacosa, febbraio 1889.)
(1) Carta bristola = cartoncino bristol.
(2) San Josè = 19 marzo, S. Giuseppe.
Assonanze alla maniera di Leporeo (non sapete chi è? cliccate qui), del tipo -ate, -ete, -ite, -ute (e, a volte, con la consonante precedente identica (come -mate, -mete, -mite, -mute):
Caro Pin. Voi fabbricate
sulle vostre alture chete
prose e versi e v’arricchite
rimbottandovi la cute.
E Melpomene, che amate, (1)
già v’innalza nuove mète
sovra un vol or fiero or mite.
– Io vi grido: Picamute”. (2)
Picamute! ed armo l’arco
Per gettarvi in braccio all’orco,
perché sempre un uomo parco
porta invidia a un uomo porco.
E il mio verso ver voi striscia
mentre un suon d’alt’acque scroscia;
E quel suon, m’accorsi poscia,
è d’uom che qui accanto piscia.
Già sperai la “Resa” rasa (3)
e squittivo dalle risa,
quando, a Roma, ecco la “resa”
rifiorir come una rosa;
la signora Amelia Prasa
tal notizia aveva presa
dal “Corrier”; io con sorprisa
maledii la vostra prosa.
Se voi foste a Buda-Peste,
scrivereste per le poste
più sovente. Io mangio paste.
Tutto està sto a Villa d’Este. (4)
Ristorar vi vuol quest’oste
Come foste Illica o D’Aste. (5)
Via! Scendete l’erta erma,
qui portate ogni vostr’arma,
lancia, elmetto e spada e parma; (6)
poscia andrem più presto a Parma,
Ombre, aure, onde e quante elise (7)
voci quel che Laura eluse (8)
qui v’attendon; “e i me dise
che qua vol vegner la Duse”. (9)
Puro è il ciel; trilla la rana;
sovra un suol di fine arena
gentilmente il fonte orina;
vola l’Euro o vien da Arona;
suoi tepori agosto emana;
ride al suol la roccia amena
che nel sen chiude la mina.
“Vien, se no te digo mona. (10)
(A Giuseppe Giacosa, post marzo 1886?)
(1) Melpomene è la Musa del canto.
(2) ?
(3) allude alla Resa a discrezione, commedia di G. Giacosa, 1886.
(4) Està = estate.
(5) Luigi Illica e Ippolito Tito D’Aste, drammaturghi.
(6) Parma = piccolo scudo.
(7) Citazione petrarchesca; elise
= elisie, dei Campi Elisi, luogo dell’aldilà
destinato alle anime elette, secondo gli antichi Greci.
(8) Francesco Petrarca.
(9) E mi dicono che qua vuol venir la Duse.
(10) Se no (non, nella trascrizione consultata) te digo mona = Vieni, sennò di dico minchione]
Ancora assonanze, ancora più difficili: sdrucciole (-icciola, -ucciola, -occiola), tutte con la stessa terminazione (-ciola).
Mi mandi la tua bric
Di canzoncina pic
tessuta in rime sdruc (1)
Io la tua carta spic
Di vil monata, arric (2) ciola
E alla mia lampa abbruc
– Un falso argento sgoc
La coda della chioc
(A Giuseppe Giacosa, 1885.)
(1) Rime, nella trascrizione originale.
(2) Monata = stupidaggine, in veneto.
Latinismi maccheronici, in cui si alternano calchi scherzosi del nominativo e del genitivo (-ago, -aginis) della terza declinazione:
Forse una vaga imagine
È questa tua lombago,
Ovvero una lombagine
Della tua vaga imago.
Prendi penna e cartagine,
ovvero sia Cartago,
E scrivi illustri pagine
Che il mondo faccian pago,
Da Londra a Crescenzagine,
Ovvero Crescenzago.
(A Giuseppe Giacosa, senza data.)
Allitterazioni a gogò:
Tu andrai d’Andrate sul verde colle, (1)
Lesta l’estate trascorrerai,
Trarrà tra rari nappi il suon folle
d’ilari lari la lira là.
–
Lì ti rimiri nell’onda viva,
Lì ti ritiri fra l’ombre e i fior,
Lì sull’arborica verzura estiva
Il carco corica, carico cor!
(A Giuseppe Giacosa, marzo 1888?)
(1) Boito si rivolge a se stesso.
Uso compulsivo delle abbreviazioni, autentiche o inventate:
Caro Prof. Avv. Cav. e Com.
Oggi, qui, ore 6. pom.
Al Term. Cent. 40 gr.!
Andrò allo Stab. Idr. di Gr.
Verso il 26 del corr.
Tu rispondi al prossimo corr.
–
Caro Com. Avv. Cav. e Prof.
Dammi un clis. un lav. un sbrof, (1)
Caro Prof. Com. Avv. e Cav.
Dammi un sbroff, un clis. un lav.
Tal ch’io possa dire: brrrr!
Con i miei quaranta gr.
–
Caro Prof. cura il tuo pat. (2)
Colla moll. inzupp. nel lat.
Se nol farai tu dirai: Crist!
Dirai Crist! al zac del bist. (3)
–
Cura il pat. con un ammoll.
Latte e malva 10 gram.
E sarai guarito indubb.
Credi al tuo dev. aff. ex-coll.
Della Comm. Art. Mus. e Dram.
Del R. Min. dell’Istr. Pubb.
(A Giuseppe Giacosa, luglio 1884.)
(1) Sbroff = spruzzo, in lombardo.
(2) Pat. = paziente?
(3) Zac del bist. = taglio del bisturi.
E, per finire, una poesia criptica, che acquista senso trascrivendo i numeri del terzo, quarto, settimo e ottavo verso in numeri romani.
Pinotto, da quel dì quel che ti lasciai, (1)
la penna tua nove nove non dièci. (2)
Siccome un cinquecento cinque e dieci (3)
della cinquanta cinque e dieci ai rai (4)
inforcasti l’arcion senza dir: Ahi! – –
Io, nel vederti con audacia tanta
sul mille cinque e cinquanta, pensai (5)
tremando al tuo cento cinque e cinquanta. (6)
(A Giuseppe Giacosa, senza data.)
(1) Pinotto = Giuseppe Giacosa.
(2) Nove nove non dièci = non ci diede nuove notizie.
(3) Cinquecento cinque e dieci = DVX (in numeri romani).
(4) Cinquanta cinque e dieci = LVX (in numeri romani).
(5) Mille cinque e cinquanta = MVL (in numeri romani).
(6) Cento cinque e cinquanta = CVL (in numeri romani).
La prima del Falstaff si tenne il 9 febbraio 1893 alla Scala di Milano. Verdi aveva 79 anni!
Con l’Otello (1887, sempre su libretto di Boito) e col Falstaff Verdi rompeva un silenzio operistico che durava dal 1871 (Aida), dimostrando non solo che, nonostante l’età, la sua creatività non si era affievolita, ma anche che era capace di rinnovarsi percorrendo strade nuove. E, sempre col Falstaff, dimostrava inoltre di saper trattare il registro comico, che non era considerato nelle sue corde: l’unica sua opera comica precedente – la giovanile Un giorno di regno, 1840 – era stata un insuccesso.
Un po’ di merito, in tutto questo, va attribuito anche a Boito, che ne dite?
LETTURE CONSIGLIATE
Opere di Arrigo Boito
– Falstaff
Libretto: è facilmente reperibile su Internet. La versione dall’impaginazione più accurata si trova qui.
Registrazione audiovisiva: una versione dell’opera con sottotitoli si trova qui (la scena riportata in questo post comincia a 1h 57’ 33’’ ).
– Re Orso. Fiaba. Non potete, miei diletti, fare a meno di leggere questo poemetto polimetro (= con versi di varia misura): un divertissement bizzarro e macabro, una matta cosa (A. B.) dove Boito dispiega tutta la sua abilità di versificatore. Il poemetto ha avuto varie edizioni, con varianti (1865, 1873, 1877, 1902). Trovate l'edizione del 1902 qui.
Su Boito poeta e musicista
Riccardo Viagrande, Arrigo Boito, “Un caduto chèrubo”, poeta e musicista, Palermo, l’Epos, 2008.
Su Boito poeta e librettista
Edoardo Buroni, Arrigo Boito librettista, tra poesia e musica, Firenze, Franco Cesati Editore, 2013. È la rielaborazione della tesi di Dottorato (Edoardo Buroni, Arrigo Boito librettista - Un’indagine linguistica tra testo poetico e testo musicale, Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Filologia Moderna, A. A. 2008/2009), che potete scaricare da qui.
Sul rapporto fra Boito e Verdi
Riccardo Viagrande, Verdi e Boito “All’arte dell’avvenire”, Monza, Casa Musicale Eco, 2013)
L’epistolario
L’epistolario di Arrigo Boito è scaricabile da qui (prima parte) e da qui (seconda parte).
LA PRIMA PARTE DI QUESTO POST SI TROVA QUI.
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Desidero segnalare un refuso nella frase "La prima del Falstaff si tenne il 9 febbraio 1893 alla Scala di Milano. Verdi aveva 89 anni!". Verdi aveva 79 anni, essendo nato il 10 ottobre 1813. Saluti.
RispondiEliminaHa ragione, ho corretto, grazie.
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