[Stralci della declamazione del sarto di Tirano]
Ei fu! Siccome l’agili
Piume del firmamento
Nel valicar le trepide
Ali d’un suo lamento
Non è possibil campo
Non è possibil lampo
D’inadeguata fé.
. . . . . . . .
. . . . . . . .
Ei ripensò le mobili
Tende e i percossi calli
E il lampo dei manipoli
E i ferri dei cavalli,
E col suo piede adusto
Il secolo d’Augusto
Si pose a contemplar.
. . . . . . . .
. . . . . . . .
Allor pensò alla vergine
De’ patrii suoi covili
Cinta di quattro pargoli
Maschili e femminili
Che con preghiere vane
Andran cercando un pane
Fra l’arabe tribù.
Così dicendo, un gelido
Miasma vespertino
Strinse le fauci plastiche
Al misero tapino
Perdé prima l’udito
Poi mosse ancora un dito
Quindi non era più.
. . . . . . . .
Stava la bella estatica
Sul tremolo verone
. . . . . . . .
Alla novella orribile
Della notizia amara
Rimase muta estatica
Qual marmo di Carrara
Poi disse con trasporto
Ahi se non fosse morto
Forse vivrebbe ancor!
E tracannò un bicipite
Velen che seco avea,
Poi con un brando ostetrico
Donatole da Enea
Si trapassava il petto;
Poi si gittò dal tetto,
Poi si affogò nel mar!
(in: Giovanni Visconti Venosta, Ricordi di gioventù, cose vedute o sapute, 1847-1860, Tipografia Editrice L. F. Cogliati, 1904)
Il CINQUE MAGGIO
ODE.
Ei fu. Siccome immobile,
Dato il mortal sospiro,
Stette la spoglia immemore
Orba di tanto spiro,
Così percossa, attonita
La terra al nunzio sta,
Muta pensando all’ultima
Ora dell’uom fatale;
Nè sa quando una simile
Orma di piè mortale
La sua cruenta polvere
A calpestar verrà.
Lui folgorante in solio
Vide il mio genio e tacque;
Quando, con vece assidua,
Cadde, risorse e giacque,
Di mille voci al sonito
Mista la sua non ha:
Vergin di servo encomio
E di codardo oltraggio,
Sorge or commosso al subito
Sparir di tanto raggio:
E scioglie all’urna un cantico
Che forse non morrà.
Dall’Alpi alle Piramidi,
Dal Manzanarre al Reno,
Di quel securo il fulmine
Tenea dietro al baleno;
Scoppiò da Scilla al Tanai,
Dall’uno all’altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
L’ardua sentenza: nui
Chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
Del creator suo spirito
Più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida
Gioia d’un gran disegno,
L’ansia d’un cor che indocile
Serve, pensando al regno;
E il giunge, e tiene un premio
Ch’era follia sperar;
Tutto ei provò: la gloria
Maggior dopo il periglio,
La fuga e la vittoria,
La reggia e il tristo esiglio:
Due volte nella polvere,
Due volte sull’altar.
Ei si nomò: due secoli,
L’un contro l’altro armato,
Sommessi a lui si volsero,
Come aspettando il fato;
Ei fe’ silenzio, ed arbitro
S’assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell’ozio
Chiuse in sì breve sponda,
Segno d’immensa invidia
E di pietà profonda,
D’inestinguibil odio
E d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
L’onda s’avvolve e pesa,
L’onda su cui del misero,
Alta pur dianzi e tesa,
Scorrea la vista a scernere
Prode remote invan;
Tal su quell’alma il cumulo
Delle memorie scese!
Oh quante volte ai posteri
Narrar se stesso imprese,
E sull’eterne pagine
Cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
Morir d’un giorno inerte,
Chinati i rai fulminei,
Le braccia al sen conserte,
Stette, e dei dì che furono
L’assalse il sovvenir!
E ripensò le mobili
Tende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
Cadde lo spirto anelo,
E disperò: ma valida
Venne una man dal cielo,
E in più spirabil aere
Pietosa il trasportò;
E l’avviò, pei floridi
Sentier della speranza,
Ai campi eterni, al premio
Che i desidéri avanza,
Dov’è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
Chè più superba altezza
Al disonor del Golgota
Giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
Sperdi ogni ria parola:
Il Dio che atterra e suscita,
Che affanna e che consola,
Sulla deserta coltrice
Accanto a lui posò.
(Alessandro Manzoni, 1821; testo tratto da Opere varie, Fratelli Rechiedei Editori, 1881)
GIOVANNI VISCONTI VENOSTA
(Milano, 4 settembre 1831 – Milano, 1º ottobre 1906)
Giovanni Visconti Venosta ci ha lasciato due raccolte di novelle (Novelle, 1871; Nuovi racconti, 1897), un romanzo (Il curato di Orobio, 1886) e un’autobiografia che all’epoca ebbe grande successo, preziosa cronaca del Risorgimento lombardo (Ricordi di gioventù, cose vedute o sapute, 1847-1860, 1904). Ma la sua fama è giunta a noi per un piccolo componimento estemporaneo: La partenza del crociato. Il titolo non vi dice niente? Ma sì, è la storia del prode Anselmo:
Passa un giorno, passa l’altro,
Mai non torna il nostro Anselmo,
Perché egli era molto scaltro,
Andò in guerra, e mise l’elmo...
È una composizione che testimonia l’irresistibile propensione dell’irreprensibile nobiluomo per lo scherzo e la burla: scherzo poetico che irrideva i poemi cavallereschi e burla nei confronti del povero studente che, dopo aver abbozzato i primi quattro improbabili versi di una poesia richiestagli come compito per casa, si era presentato fiducioso al Visconti Venosta chiedendogli aiuto.
Una vocazione al comico e alla burla che il Visconti Venosta innesta nel suo impegno risorgimentale: Nicolò e la questione d’Oriente: Tragedia in parodia per marionette, ambientata in Russia, è in realtà una parodia antiaustriaca: Scelsi per argomento della parodia la guerra turca e intitolai la tragedia Nicolò. Nell’imperatore Nicolò I, a quel tempo si personificava il più puro dispotismo e cercai di far capire che nella parodia della Russia alludevo all’Austria. Il complesso della rappresentazione riuscì qualcosa di così comico che ogni tanto gli attori dovevano fare delle pause per lasciar sfogare l’ilarità irrefrenabile, clamorosa degli spettatori e la propria. [...] Il successo fu bellissimo e si vollero delle repliche con un pubblico più numeroso; ma dopo la terza rappresentazione fui chiamato alla Polizia; ricevetti l’ordine che si smettesse e mi fu tolto il passaporto che tenevo. (G. V. V., Ricordi di gioventù)
Ma questa propensione allo scherzo e alla burla tocca i massimi vertici della raffinatezza (e della cattiveria) nella burla giocata ai danni del povero sarto di Tirano (SO):
A Tirano c’è un piccolo teatro, ove di tanto in tanto recitavano allora de’ dilettanti del paese, e ove capita alle volte qualche compagnia di comici in bolletta a recitarvi de’ drammi, compreso quello, poverini, del loro appetito. Un sarto, che era un dilettante appassionato se non fortunato, amava recitare insieme coi comici; ma in quell’autunno [1855] il direttore della compagnia ch’era venuta a Tirano non volle saperne di lui, sotto il pretesto ch’era una figura ridicola e che aveva una gamba storta. Ciò era vero; ma il sarto non sapeva capacitarsi di quel rifiuto, e se ne doleva altamente al caffè. Trovandomi presente una sera, mentre qualche maligno lo andava aizzando, gli diedi in tono serio ed amichevole il consiglio di vendicarsi recitando un monologo od una poesia. Il sarto accolse il consiglio con gratitudine, e la mattina seguente lo vidi comparire nel mio studio per chiedermi il monologo, non sapendo precisamente che cosa fosse; e io gli risposi che tornasse tra qualche giorno per lasciarmi il tempo di farne venire da Milano uno nuovo, fatto fare appositamente per lui. La sua riconoscenza fu grande, e lo servii subito. Erano sopraggiunti intanto mio fratello Emilio e un nostro amico, Antonio Della Croce, che furono complici dello scherzo; e ci venne l’idea di mettere insieme delle strofe senza senso, meno quel po’ che ci sarebbe voluto perché il sarto non se ne accorgesse. La poesia fu presto fatta; la diedi al sarto, gliela spiegai [!] e gli insegnai anche il modo di declamarla. Il sarto non s’accorse dello scherzo; e ripenso ancora a quelle mattine in cui il poveretto veniva nel mio studio a farsi spiegare qualche punto che gli pareva un poco oscuro, e a farsi insegnare i gesti e le inflessioni della voce per dar risalto alla sua declamazione.
Finalmente andò in scena. Era giorno di fiera, e c’erano in teatro non solo persone del paese, ma anche parecchi d’altri paesi della provincia. Il sarto al primo presentarsi sulla scena ebbe un gran successo, e l’ilarità fu generale. Vi contribuirono la figura del pover’uomo, i gesti coi quali salutò il pubblico, e un gilè bianco che aveva delle proporzioni inverosimili. Poi, con una grande serietà, declamò la poesia da capo a fondo, accompagnandola coi gesti e colle pose tragiche che gli avevo insegnate. Da prima il pubblico rideva, ma non capiva, com’era ben naturale; poi parecchi s’accorsero della canzonatura, e ridevano ancor più, applaudendo. Ma ci furono anche quelli che, pur ridendo per le boccacce del sarto, non badarono al [non] senso della poesia abituati forse a non badarci mai.
Il successo fu straordinario; il sarto dovette ripetere la declamazione più volte, e per altre sere; per molti giorni non si parlò in paese che della poesia e di lui. Il buon uomo mi fu riconoscentissimo; finché visse ricordò sempre con compiacenza il gran successo di quella sera, e non si faceva pregare a ripetere quei versi ad ogni occasione che ne fosse richiesto. Non sospettò mai la canzonatura, e nessuno gliela svelò. Ho trovato in pochi, durante la vita, una riconoscenza più duratura.
Nelle sue memorie il Visconti Venosta non ritiene il componimento degno di essere riportato per intero (oppure non del tutto degno della sua rispettabilità): Le strofe erano parecchie, ma mi contenterò di darne un saggio. Contento lui, ma scontenti noi! Scontenti per la perdita irreparabile degli altri versi, ma scontenti anche perché il Visconti Venosta non ha ritenuto opportuno riportare le improbabili “spiegazioni” – sicuramente altrettanto esilaranti – che dovette dare all’ingenuo sarto.
L’aspetto più notevole dello scherzo è che fu congegnato in modo che il nonsense non apparisse tale, almeno in un primo momento e almeno non a tutti.
Abbiamo, infatti, tre gradi di consapevolezza:
1 – l’inconsapevolezza totale (e per tutta la vita!) del sarto;
2 – la consapevolezza parziale di alcuni spettatori, basata sulla gestualità ridicola, sul fisico e l’abbigliamento infelici, inadeguati all’aulicità del testo;
3 – la consapevolezza totale degli altri spettatori, che si accorgono delle incongruenze del testo (ma non subito!).
Come si spiega?
1 – Bisogna innanzitutto tener conto che il lessico della poesia italiana, contrariamente a quello di altre nazioni, è stato, fino a poco tempo fa, sempre dotto e aulico, programmaticamente lontano dal parlato comune. Forse perché la poesia sceglieva argomenti lontani dal presente? Ma anche quando l’argomento è vicinissimo, di tutta attualità (come la morte di Napoleone, cui Manzoni dedica Il cinque maggio) massiccia è la presenza di un italiano vetusto, poggiato fermamente sullo zoccolo marmoreo dell’antico: ei, scorrea, fia, spirto, polve, rio, aere, alma, periglio, sònito. (Gian Luigi Beccaria, Italiano, Milano, Garzanti, 1988).
Qui Visconti Venosta impiega termini aulici usuali del linguaggio poetico (fé, verone, brando, ...) ma anche – burlescamente – termini altrettanto dotti, tratti però dal linguaggio scientifico (bicipite, ostetrico).
2 – La poesia ascoltata, al contrario di quella letta individualmente, non permette pause e riletture di passaggi difficili o dubbi: bisogna tralasciarli e continuare a seguire la declamazione.
Tutto ciò faceva apparire come normale l’esperienza di non capire qualche passo di una poesia recitata.
3 – Il ritmo martellante e facilmente orecchiabile – perfettamente in linea con quello dei melodrammi dell’epoca, e a cui adesso non siamo più abituati – tende a far prevalere la forma sul contenuto, il significante sul significato.
L’effetto, in questo caso, viene potenziato dal referente, evidente fin dall’incipit: L’Ei fu iniziale – che possiamo immaginare seguito senz’altro da un’inevitabile solenne e significativa pausa – deve aver fatto pensare a più di uno spettatore di stare per assistere alla declamazione della celebre ode Il cinque maggio di Alessandro Manzoni. E anche se, dopo il siccome, appariva chiaro che di altro si trattava, rimaneva comunque l’idea che si rimanesse in quell’ambito, indubitabilmente serio.
Il riferimento a Manzoni ritorna più avanti, facendosi quasi letterale; si confronti il manzoniano
E ripensò le mobiliTende, e i percossi valli,
E il lampo de’ manipoli,
E l’onda dei cavalli,
E il concitato imperio,
E il celere ubbidir.
con il venostiano
Ei ripensò le mobili
Tende e i percossi calli
E il lampo dei manipoli
E i ferri dei cavalli,
E col suo piede adusto
Il secolo d’Augusto
Si pose a contemplar.
Nella poesia di Venosta c’è di tutto:
1 – incongruenze logiche: il quadruplo suicidio della strofa finale;
2 – incongruenze sintattiche: nella strofa iniziale manca il secondo termine di confronto;
3 – incongruenze di significato: quando la frase sembra avere un senso compiuto, compare un aggettivo incongruo (un tremolo verone? Solo in caso di terremoto!) o del tutto fuori posto (fauci plastiche);
4 – nonsense (l’agili piume del firmamento);
5 – abbassamenti di tono (i percossi calli anziché le percosse calli, muta estatica sì, ma qual marmo di Carrara) studiati in modo da non essere percepibili da una persona incolta.
Perfido e tremendo Visconti Venosta! Ma l’ultima frase del suo resoconto – Ho trovato in pochi, durante la vita, una riconoscenza più duratura – fa sospettare che, accanto a un certo compiacimento, una puntina di rimorso si fosse insinuata.
LETTURE CONSIGLIATE
Ricordi di gioventù, cose vedute o sapute, 1847-1860, è un mattoncino di 680 pagine. È reperibile sul mercato antiquario; ma potete leggerlo online o scaricarlo gratis, in vari formati, dalla Biblioteca dell’Università del Michigan (oh yes, nelle biblioteche americane si trovano chicche del genere!) L’indirizzo sarebbe questo:
ma non funziona!
Niente paura: digitate su Google Giovanni Visconti Venosta e il link apparirà nella prima pagina dei risultati della ricerca:
Ricordi di gioventù: cose vedute o sapute, 1847-1860 ...
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Author: Giovanni Visconti Venosta Publisher: L. F. Cogliati Year: 1904. Possible copyright status: NOT_IN_COPYRIGHT Language: French Digitizing sponsor: ...
SITI INTERNET:
http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Visconti_Venosta
Pagina di Wikipedia su Giovanni Visconti Venosta.
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ho notato che una strofa è incompleta : ho provato a farla emergere dalla memoria e, più o meno, dovrebbe suonare così:
RispondiElimina"Stava la bella estatica / sul tremulo verone/ sognando i fasti armonici/del prode suo campione/ non fu possibil vanto/ non fu possibil scampo/ d'inadeguata fe'"